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I Paperoni di hightech, petrolifere e banche a braccetto con l’inflazione

VINCENZO COMITOucraina/russia

Nelle guerre certo qualcuno ci guadagna sempre e anche molto, ma questa volta forse nessuno otterrà tanti soldi come quelli realizzati nel 2021 dai grandi gruppi internazionali operanti in particolare in alcuni settori e di cui sono stati pubblicati nelle scorse settimane i bilanci.
Nel campo delle imprese digitali la Apple ha registrato utili incredibili, pari a 94,7 miliardi di dollari, quando il massimo precedente era stato di “soli” 59, 5 miliardi; Google ha ottenuto 76,0 miliardi, Facebook 39,4 e Amazon 33,4. Nessuna impresa Ue nel settore si avvicina anche molto alla lontana a tali risultati.
Nel campo bancario la JP Morgan ha dichiarato guadagni per 50 miliardi di dollari, contro i 36,4 dell’anno precedente, mentre la Citibank e la Wells Fargo sono arrivate a 22 miliardi ciascuna. Anche per quelle europee il 2021 è stato un anno importante, ma i risultati sono stati, come sempre, inferiori a quelli Usa. Così in Francia la BNP Paribas ha guadagnato 9,5 miliardi di euro (un po’ meno di 11 miliardi di dollari), il Credit Agricole 9,1, la Société Générale 5,6. Banca Intesa è arrivata a 4,2 miliardi. Nel settore del petrolio e gas, la Exxon ha ottenuto utili per 23 miliardi di dollari, la Shell per 19, la Total per 18, la Chevron per 15,6, la BP infine per 12,8 miliardi. L’Eni segue a distanza, con 4,7 miliardi di euro.
Risultati mirabolanti sono stati raggiunti anche dalle società di trasporto container - che hanno approfittato del caos logistico mondiale- e dagli intermediari del settore alimentare. Infine, dulcis in fundo, la Pfizer ha guadagnato 22,0 miliardi di dollari, contro “soltanto” 9,2 nel 2020.
Mentre quasi nessuno si meraviglia di tali risultati, essi non sono certo frutto di genio manageriale, ma piuttosto il prodotto di una serie di eventi esterni favorevoli, dallo scoppio del covid, che ha portato all’esplosione della domanda di certi beni, ai problemi logistici che hanno rarefatto l’offerta, alla lievitazione dei prezzi del petrolio, il tutto collegato poi alla struttura oligopolistica del mercato. Ma l’utile non era il premio per il rischio d’impresa?
Le sette grandi dell’energia, mentre distribuiranno 50 miliardi di dollari agli azionisti, ne impiegheranno 40 nel riacquisto di azioni proprie e questo invece di pensare a maggiori investimenti nelle rinnovabili; l’Eni farà la sua parte con il riacquisto di azioni proprie per 2 miliardi di dollari.
Si pongono molti altri problemi. La potenza di fuoco delle imprese elencate sottolinea le loro possibili pratiche oligopolistiche, che lasciano poco spazio alla concorrenza. Google ha sino ad oggi assorbito 268 imprese concorrenti, Apple 123, Amazon 111 e Facebook 105. Per altro verso, tali risultati sono la spia del fatto che si va consolidando un sistema di potere oligopolistico sempre più concentrato (Thomas Fazi).
I problemi appaiono anche più gravi sul fronte politico; le enormi risorse finanziarie serviranno a condizionare fortemente le decisioni dei vari governi e della Ue.
Ma appare importante volgere l’attenzione anche ad un’altra questione, quella del possibile rapporto tra i profitti delle grandi imprese oligopolistiche e l’inflazione. Sul tema è in atto in particolare da qualche mese un dibattito tra gli economisti e i politici Usa.
Il tasso di inflazione Usa nel gennaio del 2022 ha raggiunto il livello del 7,5% e minaccia di crescere ancora nei mesi seguenti, mentre, d’altra parte, nel 2021 esso è stato ben più alto della crescita dei salari in tutti i paesi del G-7. Intanto il governatore della Banca d’Inghilterra ha dichiarato che i lavoratori dovrebbero moderare le domande di crescita dei salari, mentre non ha chiesto invece alle imprese di non aumentare i prezzi (!).
Sempre negli Usa, a questo proposito, la sinistra del partito democratico sostiene da qualche tempo che l’inflazione è generata, almeno per una parte, dall’avidità dei grandi gruppi che, per aumentare a dismisura i loro profitti, alzano i prezzi. Tale posizione ha incontrato all’inizio il sostegno dello stesso governo, che ad esempio ha bastonato su tale questione le quattro imprese che controllano il mercato della carne; ma ora esso sembra però molto più silenzioso sul tema.
Un articolo di Robert Reich sul Guardian del 20 febbraio ribadisce con ricchezza di argomentazioni la tesi. In estrema sintesi, con i profitti dei grandi gruppi a livelli record, afferma l’autore, essi potrebbero assorbire facilmente gli incrementi di costo generati dai problemi attuali delle catene di fornitura globali, ma essi alzano invece i prezzi perché lo possono fare e lo possono fare perché non hanno alcuna concorrenza. Chissà che non abbia ragione.

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