CULTURA

L’arte del gironzolare nel mondo del «dopo»

«Rabalaïre», l’ultimo romanzo dello scrittore francese Alain Guiraudie
SILVIA NUGARAFRANCIA

Rabalaïre è il secondo romanzo di Alain Guiraudie, regista noto soprattutto per Lo sconosciuto del lago e scrittore di cui in Italia era uscito il precedente Qui comincia la notte (Clichy, 2014). Per ora, quest’avventura di oltre mille pagine (edita in Francia da P.O.L.) che ha brillato per audacia nel panorama dell’ultima rentrée littéraire, non ha trovato una casa editrice che voglia tradurlo né da noi né altrove ma ne varrebbe la pena. Non perché sia un libro perfetto ma perché sa iniettare linfa immaginifica nel corpo fiacco della realtà. Peraltro, è stato proiettato in anteprima alla Berlinale 2022 il nuovo lungometraggio dell’autore, Viens, je t’emmène. Il film riprende uno dei fili narrativi di un testo che però ha la sua ragion d’essere non tanto nella trama quanto nel procedere magmatico della parola tra desiderio e paranoia.
IL TITOLO è una parola occitana, appellativo che si dà a qualcuno che gironzola, ficca il naso qui e là e magari si presenta in casa d’altri proprio all’ora dei pasti. Rabalaïre mescola i generi, è un'avventura picaresca tragicomica, un flusso di coscienza, una fantasmagoria erotica ma anche un poliziesco con tocchi gotici e fantastici, una reinvenzione passionale e appassionante della Francia post-attentati tra derive securitarie, crisi economica, rifiuto del lavoro, tentazioni rurali e aneliti di un altrove possibile solo in spazi mentali espansi dall’effetto di serotonina, dopamina, acido lattico e lisergico.
L’io narrante è un esodato ultraquarantenne di nome Jacques, fatalista e meditabondo come l’antenato illuminista. Convinto di poter trovare un altro impiego prima della fine del sussidio di disoccupazione, decide di approfittare della pausa per godersi un po’ la vita. Passa quindi le giornate in bicicletta, verso i Pirenei, sui grandi colli che hanno fatto la storia del tour de France, il Tourmalet, l’Aubisque. Sembra libero e pieno di energia, si alza all’alba e pedala per ore ma, come gli fa notare un’ex-collega di lavoro che ha invece scelto di battersi per il reintegro in azienda, «ammazzarsi di fatica è da depressi». Lui però non crede di avere una depressione, né di aver subito un’ingiustizia. Non crede più in tante cose che gli erano sembrate legittime in passato, per esempio a un certo modo di intendere l’impegno politico: i picchetti, il volantinaggio, le riunioni di sezione, le elezioni. Ma non è un indifferente, è solo esausto come tanti oggi e langue in bilico sul crinale tra un prima e un dopo. Il libro si addentra in questo «dopo», denso di situazioni che hanno la consistenza ambigua dell’incubo e del sogno insieme.
DURANTE UNO DEI SUOI GIRI, l’uomo arriva in un villaggio su un colle che ha il nome di un presagio, col de l’Homme mort. Lì incrocia una serie di personaggi: i gestori di un ristobar a cui lo attrae una misteriosa simpatia, un prete che conforta chi è in lutto dormendo nel suo letto, un pastore che parla solo occitano, un contadino che forse ha ucciso qualcuno; gente di campagna che vive poveramente e nell’invisibilità coltiva i propri segreti. Jacques è ammaliato da quella ristretta cerchia rurale, come da una chimera o da un mondo alla deriva – non c’è differenza nel libro tra la promessa di un futuro e la minaccia di una fine – e fa di tutto per diventarne parte, ci torna di continuo e si guadagna il soprannome rabalaïre. Jacques è omosessuale ma quando un colloquio di lavoro lo porta a Clermont-Ferrand, si innamora di una prostituta non più giovane. Il tutto accade mentre si compie un attentato terroristico di matrice islamica e il responsabile resta a piede libero. Chissà se c’entra qualcosa Abdou, il ragazzo magrebino a cui Jacques dà un passaggio in auto mentre torna a casa quella sera. Forse è solo la sua immaginazione, il panico collettivo o l’islamofobia serpeggiante a farglielo credere. Sta di fatto che quando il ragazzo, dopo varie vicende, finisce per stabilirsi a casa sua, il col de l’Homme mort diventa il luogo di fuga ideale e necessario.
MA È POSSIBILE fuggire dalla realtà? E chissà poi qual è la realtà in questo universo duplice popolato di doppi. Nel peregrinare continuo tra la città e la campagna, tra il sonno e la veglia, il protagonista scoprirà man mano quant’è opaca la soglia tra l’essere e il dissolversi. L’elemento liquido abbonda in questo testo fluviale che sgorga in parte sotto l’effetto del liquore afrodisiaco distillato nei boschi dove bazzica Jacques.
Sospinta da un afflato sempre più notturno e oltremondano, la scrittura di Guiraudie oscilla tra realtà e immaginazione, tra conscio e inconscio, tra verosimile e inverosimile. Intrecci deliranti, desideri dilaganti, fantasie allucinatorie sprizzano da ogni pagina di questo romanzo-mondo che incrocia Asterix e Bataille, Diderot e Céline, Donizzetti e Kathryn Bigelow, Deleuze e le news a ciclo continuo. Potenziali jihadisti, sex worker, imprenditori rapaci, piccoli e grandi malavitosi, agenti di polizia telepatici, villici lussuriosi, anziani con l’Alzheimer, preti hitchcockiani popolano un ritratto del nostro tempo colto dai suoi margini sociali e geografici.
XAUS, Gogueluz, Brandelore, Roquebrune: i toponimi sono come le lingue semi-inventate nei primi film dell’autore (Rabalaïre doveva essere il titolo di quello che poi è diventato il suo primo lungo, Pas de repos pour les braves del 2003), parlano allo stesso tempo di un mondo che non c’è più e che non c’è ancora. Nelle foreste, nelle stalle, nei confessionali, nelle dark room, nelle pensioni da quattro soldi, negli angoli di strada o nei sottoscala dove si accucciano i reietti di Rabalaïre alberga un rimosso pronto a esplodere e a ricadere sulla terra in forma di caos.

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