INTERNAZIONALE

Kiev si risveglia ferita da Putin. E ora?

SABATO ANGIERIUCRAINA/KIEV

È una città diversa, Kiev, al risveglio dalla prima notte dopo il riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche separatiste del Donbass da parte della Russia. «Non ne voglio parlare» dice Kostya uscendo dalla metro Teatralna, e visto che insisto aggiunge: «Che ne penseresti tu se qualcuno avesse appena annunciato al mondo che non esisti, che sei solo un "errore della storia"? Saresti felice?».
SI CAPISCE CHE L’OSTILITÀ è cresciuta e che per una volta sono le parole del presidente russo, ancor più delle sue azioni, ad aver lasciato il segno. Gli abitanti della capitale ucraina, in genere abbastanza disponibili a rilasciare dichiarazioni, oggi sono più taciturni del solito. Anche perché, ogni cento metri c’è un giornalista che più o meno farà la stessa domanda. Ciò che per settimane tutti dicevano di non temere e di essere pronti a gestire, è alle porte e ha la forma di un esercito a cui alcuni danno il nome di «contingente di pace», meschina ironia della propaganda.
Del resto, non è la prima volta che succede, anche in anni recenti, e da ogni parte hanno usato la stessa retorica, ma ciò non sottrae nulla alla gravità della situazione. Le immagini dei carrarmati che passano il confine e dei festeggiamenti nelle capitali separatiste hanno fatto ben presto il giro del mondo. E ora?
Camila, al chiosco del caffè vicino al Mercato Bessarabico suggerisce un’interpretazione interessante: «Finalmente saranno contenti i giornalisti americani». Lo dice senza livore, non per criticare qualcuno ma per parlare della sua condizione e di quella di milioni di altri ucraini che per settimane hanno atteso la fatidica data dell’invasione, rilanciata a gran voce dai media di tutto il mondo e, fino a ieri, sempre rimandata. Quasi come se ogni giorno si rappresentasse una scena di Aspettando Godot gli ucraini aspettavano qualcosa di inesistente. «Niente panico» e «siamo pronti» erano le due formule standard dell’auto-narrazione nazionale. Il sabato gli addestramenti fuori città con gli istruttori delle «Forze di difesa territoriale», a scuola e all’università meglio non parlarne, sul lavoro non sai mai come gli altri reagirebbero e meglio non avere problemi, a casa chissà. Tutto sotto il tappeto, o meglio, nel silenzio dei propri animi tormentati dalle dichiarazioni di Stoltenberg o di Lavrov.
POI, COME I FUOCHI D’ARTIFICIO nella piazza centrale di Donetsk trasmessi dall’emittente russa RT mostravano persone che inneggiavano alla fine di un’era, così in Ucraina le dichiarazioni di Putin sono servite ad acquisire la consapevolezza che non si trattava di una tortura mentale e basta.
Nelly, armena che si è trasferita qui per amore e ha aperto una piccola azienda che si occupa di merchandising racconta: «Cercavo di evitare il discorso per non mettere angoscia ai dipendenti, poi mi sono accorta che appena me ne andavo io parlavano solo di quello e allora ho convocato una riunione per discuterne tutti insieme; forse sarà perché sono straniera, ma mi sono sentita male al pensiero che avevo aspettato tutto quel tempo». E Nelly, armena, non si può dire che non abbia familiarità con le sofferenze causate dalla guerra.
CERTO, ORA NON È FINITA, anzi. Non si può arrivare a raccontare con il fatidico sospiro di sollievo che il peggio è passato. Tutt’altro, probabilmente il peggio è davanti a noi.
In un Paese dove la società vive da mesi una sorta di mobilitazione generale e la guerra intermittente nel Donbass ha assunto i caratteri di una battaglia irredentista, le fragilità emergono con più forza. Ad esempio, i migliaia di reduci tornati dal fronte affetti da "“sindrome post-traumatica" che stentano a trovare un posto nella vita civile, il proselitismo ideologico di estrema destra che negli stadi e in alcuni gruppi vicini a battaglioni militari e paramilitari trova terreno fertile per germogliare velenosamente, le interferenze straniere nella politica nazionale, il riarmo accelerato dagli "alleati" dell’area Nato e dei paesi spaventati dalla Russia.
E IL GOVERNO di Volodymyr Zelensky inizia a sentire le pressioni di chi vorrebbe un intervento militare subito, di chi parla di eroismo e di sacrificio per la patria (gli stessi che non usano mai la prima persona). «Mah», sembrano dire tre ragazzi sulla trentina quando gli chiedo come si sta comportando il presidente, «comunque è importante restare uniti».
Quanto durerà questa tolleranza, soprattutto se gli scontri armati si intensificheranno, è difficile dirlo; chi potrebbe arrivare dopo Zelensky forse meglio non immaginarlo.
Ma tutto ciò per le strade di Kiev in questa giornata di sole invernale non è evidente. Ognuno porta con sé le proprie ansie e a un osservatore distratto potrebbe sembrare che si tratta di un giorno qualsiasi in una città qualsiasi.

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