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Il mercato mondiale dei chip, l’Europa ci prova ma investe poco

VINCENZO COMITOEUROPA/BRUXELLES

C’è stato un periodo, durato molto a lungo, nel quale anche solo al pronunciare nei dintorni di Bruxelles l’espressione “politica industriale” i responsabili dell’istituzione comunitaria avrebbero messo mano alla pistola. Poi, qualche anno fa, i fanatici del libero mercato si sono arresi all’evidenza: gli Stati Uniti e la Cina avevano conquistato quasi tutte le posizioni nelle tecnologie avanzate. All’assenza da lunga data nella UE di iniziative adeguate per sviluppare i business nuovi si sono poi aggiunte le difficoltà suscitate dal covid e dalle relative rotture nelle catene di fornitura, che hanno spinto ancora di più a ripensare persino la questione degli aiuti di Stato, sino a ieri anatema.
Ecco che, sotto la spinta di Berlino e di Parigi, con l’Italia distratta da cose certamente più serie, seppellendo alcuni dei principi fondanti della stessa UE, si sono varate alcune iniziative. Ora è la volta del settore dei chip. Nei giorni scorsi a Bruxelles, dopo analoghi piani posti in essere da Cina e Stati Uniti, è stato proposto uno schema di un “European Chip Act”, con il quale rilanciare la ricerca e la produzione di semiconduttori, con l’obiettivo di più che raddoppiare entro il 2030 la quota comunitaria nella produzione mondiale, passando dal 9 % attuale al 20%. A tal fine si pensa di mobilitare 43 miliardi di euro, di cui circa 15 miliardi di fondi freschi e per il resto utilizzando risorse dei singoli paesi e delle imprese, anche con l’ausilio del recovery plan.
L’aria trionfale con cui la von der Leyen ha annunciato il progetto lascia dubbiosi per diverse ragioni. Nessun paese controlla oggi l’intera catena di produzione di un semiconduttore, che appare mondializzata. Seguendo uno schema di Le Monde del 9 febbraio, da noi un poco arricchito, possiamo dire che è facile che un nuovo chip venga progettato negli Usa, su di un’architettura della britannica ARM, che le materie prime vengano dalla Cina, che la produzione relativa sia effettuata a Taiwan o in Corea del Sud, su macchine dell’olandese ASML, che la stessa produzione venga poi assemblata in Malaysia, con i gas speciali necessari inviati dal Giappone; essa sarà poi collocata soprattutto in Cina o in Asia, continente che controlla il 70% del mercato mondiale, con la Cina da sola intorno al 60%. Un miracolo della globalizzazione. Ricordiamo ancora che le macchine della ASML sono composte da 50.000 pezzi, con circa 5.000 fornitori di molti paesi. Ora, il tentativo di demondializzazione del settore, dell’unicuique suum, varato da Cina, Usa e UE sarebbe un grande passo indietro e non appare comunque una decisione positiva, né veramente alla fine fattibile con le deboli forze del nostro continente.
Si potrebbe semmai pensare ad una strategia alternativa, che, senza voler coprire l’intera gamma delle attività, si concentrasse sul rafforzamento delle imprese esistenti e dei loro punti di eccellenza. Va ricordato, a questo proposito, il ridotto peso attuale della produzione UE, con le aziende di qualche importanza che si contano sulle dita di una mano e con nessuna di esse, tranne la ASML, che presenti una posizione di grande rilievo sul mercato mondiale. Esse non provano neanche a competere con i grandi attori asiatici ed Usa, ma si limitano a rifornire alcuni settori che richiedono prodotti meno sofisticati, mentre entrare in comparti nuovi sembra per loro difficile. Su di un altro fronte, l’UE ha uno svantaggio di costi e un mercato interno molto più ristretto rispetto ai produttori asiatici.
D’altro canto, il mercato mondiale dei chip era nel 2021 pari a 440 miliardi di euro e dovrebbe arrivare a più di 900 nel 2030. Dato che ogni miliardo di fatturato necessita di un miliardo di investimenti, per ottenere una quota del 20% delle vendite mondiali bisognerebbe mettere all’incirca 150 miliardi nelle nuove attività, oltre a quanto necessario per la gestione dell’esistente. Si dovrebbero costruire diverse decine di nuove fabbriche. Un compito fuori portata, mentre già sullo stanziamento di 43 miliardi ci sono grandi discussioni (qualcuno vorrebbe persino spendere di meno) e non è detto, d’altro canto, che si riuscirà a mobilitare una tale somma per intero. Ma per chi paga poco, la messa è breve. Non essendo poi le imprese del continente capaci di raccogliere del tutto tale sfida, siamo obbligati a offrire molto denaro agli americani ed agli asiatici, da Intel a TSMC, perché investano da noi, aprendo loro ulteriormente il mercato UE, mentre anche i lunghi tempi di Bruxelles militano contro il successo del progetto.
Alla fine, le iniziative descritte, pur essendo comunque positive, sono a nostro parere mal concepite e largamente insufficienti, mentre arrivano anche tardi. L’Asia e gli Stati Uniti appaiono sempre lontani all’orizzonte.

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