VISIONI

Immaginari sui bordi tra interni domestici e le scommesse del nostro tempo

LA SORPRESA DI «SMALL SLOW BUT STEADY», LE TENDENZE RIVELATE DAGLI SCHERMI
CRISTINA PICCINOgermania/berlino

La Berlinale 72 si è chiusa con l'annuncio dei premi anche se fino a sabato, come da calendario originario, continuano le proiezioni per il pubblico. Una formula questa decisa in corsa nei giorni successivi alla diffusione di Omicron, probabilmente per salvaguardare il festival in presenza – necessità che ha poi prodotto una serie di limitazioni per gli accreditati tra cui l'ormai «famoso» test quotidiano, e un'atmosfera di attesa e di incertezza, riflesso di uno stato comune nonostante gli annunci di fine pandemia e l'accelerazione per cancellarne i segni.
LO STESSO sentimento che attraversava molti dei film visti nelle diverse sezioni, con le sorprese arrivate soprattutto da quelle «parallele» alla competizione la quale invece è apparsa irrigidita, forse perché penalizzata dalle incertezze che hanno accompagnato il festival prima della conferma. Film di interni questi della Berlinale 72, che portano il mondo tra le pareti domestiche o in un orizzonte chiuso – molti sono stati realizzati tra un lockdown e l'altro, ne è magnifica prova Coma di Bertrand Bonello, diario di «confinamento» adolescenziale tra inquietudini, fantasmi e desideri di un altrove. E lì, in questa dimensione «chiusa», che mette al centro spesso la famiglia, si traducono conflitti, paradossi, mutazioni del nostro presente, un «fuori» che si materializza in trame personali, stati d'animo, scontri fra generazioni, silenzi e improvvisi atti d'amore.
Un film di famiglia - e a suomo modo in casa - è l'Orso d'oro Alcarràs di Carla Simón., nel quale (segno dei tempi, appunto) la famiglia di agricoltori protagonista nonostante incomprensioni e litigate appare nei suoi legami come l'unico nucleo di resistenza alla globalizzazione della realtà intorno che finirà per divorarne passato e identità culturale (altro tema sensibile).
TUTTO L'OPPOSTO la «famiglia» di Alain Guiraudie in Viens, je t'emmène che è invece allargatissima: un condominio dove ciascuno dei suoi abitanti esprime i pregiudizi francesi e dell'Europa, quelli dell'occidente verso i migranti specie se arabi - visti tutti come potenziali terroristi – che a loro volta rispondono all'esclusione con scelte identitarie di religione e tradizione.
E poi la sessualità, il gender, le relazioni, i razzismi quotidiani, lo sfruttamento, la violenza la scomparsa della politica e i gesti di «solidarietà» che sembrano esserne una possibile variazione. Il paesaggio del precedente L'innconnu du lac, e di molti altri film del regista francese, sempre ambientati nella natura – un bosco, il lago resi quasi astratti - si apre stavolta allo spazio cittadino in cui questa strana comunità inventa un suo modo – e non senza stridori – una convivenza grazie alla quale si afferma, e per fortuna, anche un diverso modello di relazioni.
Un campo di battaglia in interni è anche quello di Avec amour et acharnement, premio alla regia di Claire Denis - che ha dato prove più felici di questa - e che ritrova Juliette Binoche ma senza l'aura di cui l'aveva circondata in L'amore secondo Isabelle. Insierme a Vincent Lindon la rende protagonista di un quasi melò degli amori sbagliati che viene però soffocato dalla necessità di riferimenti sociali e alla nostra attualità, e da una goffaggine di scrittura (filmica) che ne paralizza le temperature.
Hong Sangsoo si muove sempre tra interno e esterno, la geografia dei suoi film ritrova a ogni nuova storia gli stessi luoghi, in piccoli caffè o ristoranti dove i suoi personaggi bevono all'infinito, e si avventurano in conversazioni che esprimono vite intere; le cittadine vicino al mare, e poi gli incontri i ritrovamenti inattesi, le sliding doors dell'esistenza, il bianco e nero luminoso, a volte i colori, una a casualità apparente di emozioni e di spaesamenti. The Novelist's Film (Gran premio della giuria) torna in questo suo universo cinematografico, vi si ritrovano i suoi attori, l'umorismo, le dichiarazioni di poetica disseminate con raffinata intelligenza. Eppure ascoltando le confidenze del personaggio protagonista, una scrittrice che non ha più l'energia di scrivere, sorgono delle domande sul regista sudcoreano, autore inarrestabile, e su cosa manca tra queste tracce familiari. Forse quell'istante di grazia (del cinema), la luce che all'improvviso spalanca all'inatteso, che sorprende lo sguardo senza esibizioni ma nella materia stessa dell'immagine. E che non può essere il volto della sua iconica e amatissima Kim Min-hee alla quale rivela fuori campo il proprio amore, in un passaggio bello e tenerissimo (e molto divertito).
É UN INTERNO dell'emozione che affiora in Small, Slow but Steady, una delle (belle) sorprese di questa Berlinale – era nel concorso di Encounters. Ispirandosi a un fatto accaduto, Sho Miyake ci porta nella routine di una boxeur (Yukino Kishii), eroina sordomuta che deve affrontare la malattia del suo maestro e la chiusura della vecchia sala di pugilato a Tokyo che considerava la sua casa. Nei giorni che si ripetono come i gesti della protagonista durante gli allenamenti, scopriamo pian piano la figura di questa ventenne, tra la prepazione dei suoi incontri, il lavoro come ragazza delle pulizie in un hotel, la casa minuscola che divide col fratello appassionato di musica. La regia di Miyake – che gira in un bellissimo 16 millimetri – lavora sui bordi: compone il tempo, i movimenti del corpo, accarezza gli sguardi, procede in sottrazione. E in questa tensione mai esibita (non c'è nulla dei film di box), affiorano i frammenti di racconto , gli stati d'animo del nostro tempo, le esitazioni della sua protagonista che definiscono con delicatezza una narrazione dell'umano.

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