VISIONI

«La nostra battaglia ha la forza dei giovani»

Conversazione con uno dei registi del film collettivo «Myanmar Diaries»
LUCREZIA ERCOLANIgermania/berlino/myanmar

«L’unica limitazione era quella di rimanere anonimi, per il resto ognuno di noi si è espresso creativamente a seconda delle proprie conoscenze» ci racconta un membro del Myanmar Film Collective, il gruppo di dieci giovani registi che ha firmato Myanmar Diaries. Presentato nella sezione Panorama, il film ha vinto il premio per il miglior documentario alla Berlinale e il mese prossimo verrà proiettato al MoMa. Ispirato dalla complessa situazione che sta affrontando il Myanmar dopo il colpo di Stato del febbraio 2021, i filmmaker hanno unito le forze e le menti per un film composito dove confluiscono stili e approcci differenti - da momenti di brutale repressione ripresi con il cellulare a scene di fiction con degli attori, rese necessarie anche dal rischio che si corre attualmente nel portare una telecamera per strada. Ad emerge prepotentemente è la forza e la convinzione del movimento di disobbedienza civile che sta sempre più prendendo piede e che batte ormai le strade della guerriglia in campagna piuttosto che della protesta in città, unendo gruppi etnici, prima fortemente divisi, in una causa comune. Aderire è una scelta che può costare molto cara: la perdita del lavoro, della casa e della vita stessa. È per queste ragioni che il gruppo ha scelto di rimanere anonimo, e in solidarietà con loro anche gli europei che hanno lavorato al film non vengono citati nei crediti. È stato possibile realizzare Myanmar Diaries infatti grazie alla coppia olandese Corinne van Egeraat e Petr Lom, rispettivamente producer e regista vissuti in Myanmar dal 2013 al 2017 per insegnare cinema. Li incontriamo a Berlino insieme ad un membro del collettivo che, come già sottolineato, deve rimanere anonimo; gli abbiamo posto alcune domande sulla realizzazione del film e l’attuale situazione del paese.
Come siete riusciti ad entrare in contatto tra voi dieci registi?
Non ci conoscevamo tutti, ma ci siamo riuniti in maniera piuttosto spontanea. Dopo il colpo di stato volevamo fare qualcos’altro al di là delle proteste, qualcosa di più durevole e che potesse attirare l’attenzione. Dopo aver avuto l’idea di realizzare un film abbiamo cercato Peter e Karine, che alcuni di noi conoscevano dagli anni in cui avevano vissuto in Myanmar. Gli abbiamo chiesto se potevano darci un aiuto, sia per alcuni aspetti creativi che per la diffusione, i contatti con i festival e con la stampa. La parte più difficile era ritrovarci di persona tra noi filmmaker, inizialmente dovevamo essere più di dieci ma per diverse ragioni, soprattutto legate alla sicurezza, alcuni hanno dovuto mollare.
Sentite di avere una responsabilità nel mostrare immagini dal Myanmar diverse da quelle che vediamo solitamente in Occidente?
Per noi era molto importante documentare storie di vita innanzitutto, ci premeva mostrare come i ragazzi che hanno abbracciato il movimento dei combattenti rivoluzionari sono persone che nella loro vita vorrebbero fare tutt’altro: diventare rapper, calciatore o chi sa cosa, e invece si ritrovano a nascondersi nella giungla armati fino ai denti. Questo però non cancella la loro umanità.
Da dove nasce il simbolo delle proteste, le tre dita centrali della mano alzate?
Dal celebre film hollywoodiano Hunger Games, dove rappresenta un simbolo di resistenza contro la tirannia. È stato adottato prima in Thailandia nel 2019 quando protestavano contro il loro colpo di stato, poi è arrivato ad Hong Kong e infine a noi.
In «Myanmar Diaries» sembra veramente che questo movimento provenga dal basso e non appare così centrale la figura di Aung San Suu Kyi di cui in si parla molto in Occidente.
Molti dei giovani che stanno combattendo non erano supporter dell’Lnd, il partito di Aung San Suu Kyi, magari avevano votato per altre forze politiche alle ultime elezioni. Questo movimento è veramente guidato dai giovani che lottano per il proprio futuro, non è né in favore di un leader politico né di un partito. Dopo aver constatato che le proteste non bastavano sono quegli stessi giovani che hanno deciso di andare nella giungla e passare alla guerriglia. Le generazioni più grandi invece sono spesso confuse o rassegnate, oppure supportano il movimento ad un livello finanziario. Credo che di pari passo stia avvenendo anche un cambiamento culturale: prima il Myanmar era guidato dagli anziani che hanno una mentalità decisamente conservatrice, adesso sono i giovani a prendere la parola. Un esempio: in passato era impensabile criticare le istituzioni buddhiste mentre noi affermiamo con tranquillità che se quelle istituzioni sono corrotte, è così che vanno definite. Sono sicuro che, se la rivoluzione avrà successo e i giovani prenderanno il potere, metteranno in campo un approccio più progressista su molti temi tra cui la tutela dell’ambiente, che viene brutalmente sfruttato per il profitto.
La questione dell’anonimato è importante per la vostra tutela, quali rischi sentite di correre?
Al momento non è neanche importante che tu sia un attivista o un filmmaker, i militari possono uccidere per qualsiasi sciocchezza. È appena passata una nuova legge per cui chiunque installa il vpn sui propri dispositivi - per non rendere tracciabile la connessione internet, ma anche banalmente per scaricare un film - può essere incarcerato per tre anni. Non credo che noi che abbiamo realizzato questo film siamo speciali, stiamo solo facendo ciò che va fatto come anche tanti altri in Myanmar. Ci sono giovani che sono coinvolti in progetti artistici di tutti i tipi, non solo cinematografici: fanno musica, cartoons, meme e così via, con una spinta molto critica rispetto al regime. Noi stiamo cercando di creare una piattaforma di registi, chiamata appunto Myanmar Film Collective, per raccogliere fondi così che anche altri possano avere la possibilità di fare cinema nel nostro paese, non solamente noi.
Quali sono le prospettive secondo voi? La guerra civile durerà ancora a lungo?
Ci sono molte defezioni nell’esercito, tanti stanno fuggendo e altri stanno pensando di farlo. Speriamo quindi che la situazione cambierà a breve, una battuta che circola recita infatti che Min Aung Hlaing, il capo delle forze armate oggi presidente del Myanmar, ha solo due sostenitori: uno è sua moglie e l’altro il suo cane.

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