VISIONI

Paolo Gioli, lo sfarfallio dell’immagine di un poeta visuale

BRUNO DI MARINOITALIA/ROVIGO

Avrebbe compiuto 80 anni Paolo Gioli, ma già da qualche tempo aveva smesso di lavorare e di sperimentare, reduce da un male che lo aveva colpito qualche anno fa. Isolato con sua moglie Carla e con i suoi numerosi gatti, a pochi metri dal fiume Adige in provincia di Rovigo, questo artista cineasta ha sempre condotto una vita ritirata. Lontano dal mondo e dal sistema dell’arte che, da parte sua, lo ha ignorato per decenni, salvo riscoprirlo tardivamente in una Biennale veneziana di qualche anno fa.
Del resto, Gioli era una figura piuttosto inclassificabile: pittore prima, cineasta e fotografo a partire dalla fine degli anni ’60: Commutazioni con mutazione e Tracce di tracce sono i suoi primi esperimenti filmici, mentre gli ultimi, Quando i corpi si toccano o Natura obscura risalgono a pochi anni fa. In totale, i suoi film sono poco meno di quaranta, tutti in 16mm (a parte un paio di video) poiché è rimasto, fino alla fine, un artista profondamente analogico.
MA FOTOGRAFO E CINEASTA Gioli non lo è mai stato nel senso classico del termine, poiché ha sempre innovato i dispositivi, inventandosi modi inediti di realizzare polaroid, ricorrendo a procedimenti che rendevano le sue immagini, in molti casi, fortemente pittoriche: dal foro stenopeico al fotofinish, dalla stampa a contatto ai trasferimenti da un supporto all’altro. E per fare questo non si stancava di creare macchine duchampianamente «celibi», che esercitavano un loro fascino anche come oggetti: lo schermo multiplo con pannelli lignei scorrevoli su cui proiettava le immagini, le cinecamere stenopeiche, gli otturatori manuali per scattare fotografie e girare film assolutamente personali. Ma che contengono riferimenti al passato e ai suoi pionieri: Marey, Muybridge, Cameron, Eakins, Nièpce, Talbot e Bayard vengono citati e ripensati all’interno delle sue polaroid e dei suoi film, per il loro incessante lavorio di trasformazione dell’immagine e del movimento insito in esso.
Gioli è stato spesso protagonista più all’estero che in Italia. Per diverso tempo unico artista italiano ad avere i propri film in pellicola nella collezione del Pompidou (dove gli è stata dedicata una mostra nel 1983), mentre negli Stati Uniti il suo cinema è stato spesso proiettato in festival e rassegne e, qualche anno fa, l’università di Harvard gli ha tributato un importante omaggio. Ma anche per quanto riguarda le pubblicazioni: un importante volume, Impressions sauvages, costellato di testi critici di studiosi internazionali, è uscito un paio di anni fa in Francia, pubblicato da La Sorbone.
Non sarebbe tuttavia neppure giusto attribuire a Gioli l’antico adagio nemo profeta in patria. Negli ultimi tempi si sono susseguite in Italia mostre a lui dedicate, iniziative editoriali (tra cui la pubblicazione in un triplice dvd della sua opera filmica integrale). E altre ne sarebbero seguite, grazie soprattutto all’impegno di quello che in molti considerano il suo alter-ego, ovvero Paolo Vampa, l’amico e il finanziatore-collezionista di quasi tutta la sua opera, la metà «imprenditoriale» di un artista che si è sempre dedicato alla creazione, lasciando all’amico il compito di occuparsi della diffusione e della valorizzazione della sua arte. Vampa, in questo momento, è il primo a piangerne la scomparsa, dopo aver attraversato con lui oltre mezzo secolo di vita e carriera.
SINTETIZZARE L’ESTETICA di un artista come Paolo Gioli risulta difficile, per la complessità e la ricchezza del suo immaginario, anche se – ed è forse una delle peculiarità che salta agli occhi – non sempre si possono ripartire cronologicamente fasi e periodi del suo lavoro. Anche a distanza di decenni, infatti, Gioli ritornava su un tema, perfino su uno stesso materiale, producendo nuove opere, sia fotografiche che filmiche. Pensiamo solo alle polaroid su corpi e volti, a serie come le Vessazioni, alle Maschere, ai torsi, ai nudi, agli omaggi a san Sebastiano.
Certo, nei primi anni ’70 ha per esempio realizzato cartelle litografiche (Ispezione e tracciamento sul rettangolo, Immagini disturbate da un intenso parassita) o tele serigrafate (una sessantina circa), tecniche e supporti che ha poi abbandonato. Così come si è dedicato nel 1985 a una serie sugli etruschi in occasione di una mostra curata da Fagone a Volterra. Ma per il resto Gioli tendeva a non chiudere mai dei «cicli», ossessionato da motivi iconografici che lo hanno indotto a continue variazioni sul tema. Questo anche in quel territorio ibrido in cui cinema e fotografia si incontrano. È il caso degli scatti e delle riprese di un fotocineamatore trovate da un rigattiere nei primi anni ’70 che all’epoca originarono Anonimatografo, un lavoro di found-footage su cui poi ha ri-lavorato anni fa, creando nuove opere come I volti dell’anonimo e un’altra serie ancora.
Tutto il cinema di Gioli è all’insegna dell’instabilità pellicolare, dalle visioni stenopeiche a quelle ottenute attraverso fessure (i lavori basati sul principio del fotofinish). L’immagine, colta nella sua continua metamorfosi, è pulsante, sfarfalleggiante, stroboscopica, dissolta e dissolvente, sdoppiata (il ricorso frequente all’immagine speculare come in Hilarisdoppio e Traumatografo), indecisa tra positivo e negativo, reale e virtuale, tendente alla frammentazione, all’incorniciamento alla ripartizione in finestre, riquadri, ma anche votata al conflitto con altre textures mediali.
Quando l’occhio trema del 1991, sembra essere quasi un film-manifesto in questo senso: l’occhio – uno dei simboli ricorrenti dell’avanguardia storica, da Redon a Dalì – è il dispositivo ottico che informa l’intero cortometraggio, richiamando, attraverso il modulo del cerchio, altri elementi circolari, altre immagini fagocitate da questo organo intermittente e tremolante che sembra essere la continuazione di Un Chien andalou: l’occhio tagliato da Buñuel viene ricucito da Gioli.
LA FERITA DELLO SGUARDO viene sanata, ma è solo un gioco, in realtà la frattura resta. È la frattura del cinema sperimentale stesso, un cinema che deve lacerare lo sguardo dello spettatore per consentirgli paradossalmente di vedere meglio, di vedere oltre. Gioli è riuscito, da vero poeta visuale, a ricondurre la complessità dello sguardo, il meccanismo illusorio della percezione nell’alveo del «naturale», non semplificandolo, anzi, semmai svelandone tutte le sfaccettature. Filmare così come fotografare è stato per lui come respirare. Respiro, battito, scansione, emulsione: attività corporea e creazione fotocinematografica si sviluppano di pari passo.
In questo senso Gioli non può separare la sua attività di artista da quella di scienziato, conoscitore del mondo e delle cose che lo circondano, attento osservatore e ricreatore di fenomeni. La figura umana, nel senso rinascimentale del termine, oltre a essere, comunque, al centro di ogni sua immagine rappresenta la misura di tutte le cose, trait d’union tra figurazione e astrazione e soprattutto tra terra e cosmo.
Qualche mese fa Gioli, con la sua solita irriverenza ed ironia, aveva dettato al suo amico Michele Sambin (artista anche lui) il suo epitaffio: «Paolo Gioli è morto, che spreco!»

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