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La normale mostruosità del Paese

Quirinale
PAOLO FAVILLIITALIA

Il ceto politico italiano ha messo in scena uno spettacolo mostruoso. Fortunatamente il suo epilogo non è stato quello che il produttore si aspettava, ma lo svolgimento della sceneggiata si è dimostrato un impressionante indicatore della condizione comatosa in cui versa la nostra vita pubblica, ormai nella fase de La maschera democratica dell’oligarchia (Canfora-Zagrebelsky).

Mostruoso sia nel senso di fenomeno «che suscita stupore e meraviglia, straordinario», sia nel senso di «infamante, vergognoso» (Grande dizionario della lingua italiana). Ancora più «degno di disprezzo, spregevole, abietto» (Grande dizionario della lingua italiana) il modo in cui nelle sedi istituzionali deputate alla rappresentanza politica nazionale, tranne rarissime eccezioni, si prescinda del tutto dal rilevare quella dimensione del mostruoso di cui la questione Quirinale è completamente innervata.

Eppure, i protagonisti della proposta indecente hanno squadernato apertamente, ogni giorno, tale dimensione in tutti i suoi più sordidi recessi, senza alcun pudore e vergogna, nella convinzione piena che questa sia la maniera normale di fare politica. Le immagini del telefonista Sgarbi, la lettera dal carcere di Verdini, manovre e consigli di comportamento politico di un insieme di pregiudicati per reati infamanti se commessi da qualsiasi comune cittadino, abietti per chi ha detenuto importanti incarichi istituzionali, sono solo le ultime sequenze di un film il cui svolgimento affonda le radici nel lungo periodo della costruzione di un’Italia berlusconiana. Di quest’Italia ne sono l’«autobiografia».

Per quel che riguarda il ceto politico berlusconiano è del tutto inutile chiedersi le ragioni per le quali s’identificano in siffatta normalità. «Chi dipende dal favore de’ principi - ha scritto Francesco Guicciardini - sta appiccicato ad ogni gesto, ad ogni minimo cenno loro, in modo che facilmente salta ad ogni piacer loro». Più interessante interrogarsi sulle ragioni per le quali il contesto della normalità vale anche per i loro avversari di «sinistra».

D’Alema, segretario del Pds, aveva assegnato alla sua generazione di ex comunisti il compito di costruire «un paese normale». Dell’edificio costituzionale entro il quale normalizzare l’Italia, Berlusconi avrebbe dovuto essere pilastro sorrettivo. Avrebbe dovuto essere, come diceva D’Alema, uno dei due principali «contraenti riconosciuti di un altro patto capace di rinnovare la coesione profonda della nazione, le ragioni dello stare insieme degli italiani» (Relazione alla Camera del presidente della Bicamerale, 26 gennaio 1998). Il mostruoso conflitto d’interessi, cioè il fondamento dell’impresa politico/delinquenziale di Berlusconi, scompariva così dietro il ruolo riconosciutogli di novello padre costituente.

Quegli ex comunisti, in realtà, andarono oltre le premesse per una convergenza istituzionale. In fondo con Berlusconi si poteva convergere anche sul piano di un «riformismo ragionevole», come argomentava Michele Salvati, l’intellettuale-politico che con maggiore coerenza, anche teorica, aveva contribuito a formare il quadro di riferimento delle varie «cose» e poi del Pd. Egli sosteneva che il Pd, appena sconfitto nelle elezioni del 2008, doveva valutare «pragmaticamente» il suo rapporto con il governo Berlusconi. Certo era comprensibile il disappunto per «l’emendamento salva-premier e il lodo Schifani», alcune delle leggi ad personam, cioè. Si trattava, però, di un aspetto del tutto secondario di fronte alla convergenza tra riformismi ragionevoli passibile di consolidamento, visto che i «ministri Tremonti, Brunetta, Sacconi avevano presentato una piattaforma economico-sociale la cui «architettura non e diversa da quella che anche il programma dell’opposizione prevedeva» (M. Salvati, «Corriere della Sera», 23 giugno 2008)

È questo il solidissimo retroterra dal quale, in perfetta coerenza, emerge la posizione di Enrico Letta oppositiva alla candidatura di Berlusconi perché «divisiva» in quanto capo di partito. Tutto ciò che può intralciare la manovra politica è soltanto «moralismo». La concezione berlingueriana di un’etica declinata all’interno degli svolgimenti politici è un tema politico centrale. Con tutta evidenza non è un problema della «sinistra per simmetria».

In fondo, per quel che riguarda la logica degli schieramenti oggi presenti, siamo finalmente arrivati al «paese normale». E quindi normalità sono tanto la vicenda berlusconiana che il neofascismo di Giorgia Meloni, con la quale si può trattare per conservare il bipolarismo forzoso. L’importante è fare in modo che nella rappresentanza parlamentare del polo opposto al blocco di destra sia presente solo la «sinistra per simmetria».

Perciò la quasi certezza della vittoria di una destra «normale», evitabile con un sistema elettorale a base proporzionale, è un rischio accettabile. Quelli che Dio vuole perdere «dementat prius» (toglie prima la ragione).



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