INTERNAZIONALE

Gli aiuti si danno e basta. Non è così per Italia e Ue

EMANUELE GIORDANAAFGHANISTAN

Se il futuro politico dell’Afghanistan resta una nebulosa è invece drammaticamente chiaro il suo destino umano da qui a primavera, quando l’inverno che già attanaglia il Paese avrà reso noto il bilancio delle sue vittime. È un bilancio già largamente annunciato dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni umanitarie sin dai primi mesi dopo la fine di una guerra ventennale chiusa con un bilancio di almeno 250mila vittime.
Ma nonostante gli allarmi e le messe in guardia poco si è mosso. Una settimana fa gli Usa, che hanno congelato i beni della Banca centrale afgana che si trovano fuori dal Paese, hanno aperto una porticina che consente a Onu e Ong di aiutare l’Afghanistan senza incorrere nelle sanzioni approvate dal Congresso. Ciò sbloccherà anche una parte dei fondi della Banca Mondiale ma solo per l’aiuto umanitario. In buona sostanza, si è fatto poco o nulla e solo in ambito umanitario anche se è evidente che se non si pagano insegnanti, medici, funzionari e così via, la macchina dello Stato finirà per incepparsi facendo collassare il Paese e riattizzando le speranza di chi crede che la battaglia contro il regime talebano si possa trasformare in un nuovo focolaio bellico.
Quanto si potrà fare per gli afgani dipende dunque dalla capacità negoziale soprattutto delle Nazioni Unite, strette tra un governo locale che non vuole imposizioni ma ha bisogno di aiuto, e le sanzioni di un Paese che ha perso la guerra ma adesso sembra volerle usare per vendicarne l’onta.
In tutto ciò l’Europa fa melina come al solito e con lei l’Italia. Continuando a rivendicare il salvataggio d’agosto si chiudono le frontiere e si evita di parlare di altri salvataggi futuri ma soprattutto non si affronta il nodo del rapporto coi Talebani. E continuando a dire che non li si deve riconoscere non si fa che rimandare una possibile trattativa (che non è di per sé un riconoscimento), peraltro inevitabile sia se si vogliono difendere i diritti che si continuano a sbandierare, sia per «non lasciar soli gli afgani», un mantra che col tempo perde sempre più significato.
Più a Est, Roma non riconosce la giunta golpista birmana ma si è ben guardata – a ragione – di chiudere la nostra ambasciata che resta sia un baluardo di difesa dei nostri concittadini che incappino nelle maglie della giunta, sia un possibile tassello di attività negoziale, se mai si avviasse, pur senza riconoscere i golpisti. Benché non sbandierate e ufficialmente non rifinanziate, molte attività di cooperazione sono ancora in piedi: evitano che contadini, malati di Covid, anziani e bambini soffrano colpe che non hanno. Ma coi Talebani non si può fare. Vengono disegnati come i più cattivi dei cattivi benché in questi 4 mesi abbiano ucciso, dicono le indagini sulle esecuzioni sommarie, un centinaio tra attivisti e collaborazionisti. I birmani ne hanno ammazzati circa sei volte tanto.
In politica i paragoni servono forse a poco ma ciò che preoccupa dell’Afghanistan è che questa guerra persa e su cui ci rifiutiamo di ragionare, pronti ad affrontarne di nuove, ci sta facendo fare grandi passi indietro.
Ha colpito che la viceministra Sereni abbia detto alcuni giorni fa a Trento che in Afghanistan «la comunità internazionale ha in mano la leva molto importante dell’aiuto umanitario». E se l’uscita poco felice della ministra poteva aprire un contraddittorio, il portale del suo partito (Area Dem) sceglieva di titolare così la sintesi del suo intervento: «Fare leva su aiuti umanitari per chiedere rispetto dei diritti». Esattamente il contrario di quanto richiede l’aiuto umanitario, che a unica tutela – come vuole la Carta dei diritti dell’uomo – deve solo esigere che l’azione sia equa. Senza distinzioni di genere, etnia, classe sociale. Aiuto non ricatto.
Ma non si è vista la più piccola ombra di dibattito su un tema gigantesco su cui dovremmo avere avuto, dalla battaglia di Solferino e poi dal Biafra, la lezione ormai assodata che gli aiuti umanitari non vanno mai messi in discussione: si danno e basta.
A Solferino Henry Dunant fondò la Croce rossa 160 anni fa proprio perché la cura non facesse distinzioni. L’accerchiamento del Biafra da parte della Nigeria alla fine degli anni ‘60 fece nascere Msf e fece capire al mondo che prendere per fame un popolo equivale a un crimine contro l’umanità.

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