CULTURA

La lunga notte degli ebrei di Venezia. Un ricordo che interroga le generazioni

«COME FOGLIE AL VENTO» DI RICCARDO CALIMANI, PER MONDADORI
GUIDO CALDIRONITALIA/VENEZIA

È nella forma di un lungo racconto indirizzato ai suoi nipoti che una delle più note figure dell’ebraismo italiano sceglie di affrontare, alla vigilia del 27 gennaio, le vicende vissute, e subite dalla propria famiglia nella prima metà del 900: vale a dire negli anni che videro l’ascesa al potere del fascismo, la sua progressiva assunzione di una politica razzista e antisemita, i crimini dell’Olocausto e la difficile acquisizione di una memoria pubblica dell’accaduto nel dopoguerra.

Autore di oltre una trentina di opere, soprattutto saggi ma con anche qualche sortita letteraria, che hanno raccontato il mondo e la cultura ebraica tra Otto e Novecento a partire proprio dalla «sua» Venezia, nelle pagine di Come foglie al vento (Mondadori, pp. 320, euro 19,50), Riccardo Calimani intesse una trama che si nutre dei ricordi famigliare come delle vicende che in quella stagione hanno caratterizzato la vita di tutti gli ebrei italiani.

A PARTIRE DALLA STORIA dei propri genitori, Fausta e Angelo, scampati alla Shoah rifugiandosi in montagna, Calimani conduce per mano i nipoti, Caterina e Alessandro, rispettivamente undici e otto anni, e con loro i lettori, dapprima alla scoperta della comunità ebraica veneziana, erede della storia cosmopolita dell’Impero asburgico ma anche della realtà pericolosa dell’Europa orientale, e quindi attraverso le tragiche peripezie che avrebbero portato alla morte di un terzo degli ebrei del nostro Paese.

«Angelo e Fausta vissero quegli anni così turbolenti della loro giovinezza nel ghetto ebraico, accanto a tante altre famiglie di correligionari, in un ambiente abbastanza chiuso, dove i poveri erano numerosi e le difficoltà economiche tali da far dimenticare l’atmosfera politica plumbea che li circondava», scrive Calimani per spiegare come ancora alla vigilia delle «leggi razziali» del 1938 pur registrando il pericolo che montava, in molte comunità le preoccupazioni fossero prima di tutto quelle della vita quotidiana.

Mentre si avvicinava la tragedia, in un’Italia che dopo la stagione coloniale cominciava a veder fiorire anche sulla stampa popolare i temi e l’iconografia del razzismo anti-ebraico, i genitori di Calimani scelsero di sposarsi, il 16 settembre del 1943 nella Sinagoga Spagnola di Venezia, prima di tentare di riparare in Svizzera per sottrarsi alle retate, e alle successive deportazioni, organizzate dai nazisti e dai fascisti repubblichini.

INTORNO, PORTE CHIUSE e silenzi: la Confederazione elvetica che sbarrò le proprie frontiere davanti a molti profughi, i «silenzi» di Pio XII sulla sorte che ovunque in Europa, e dopo il 16 ottobre del 1943 anche a quelli della stessa Città eterna, stava toccando agli ebrei. La salvezza arriverà all’ombra delle Prealpi bellunesi, nella zona di Pieve d’Alpago grazie a famiglie disponibili che accolsero per più di un anno e mezzo, fino alla fine del conflitto, i profughi.

Poi, venne il tempo di tornare a Venezia, a una vita che per gli ebrei italiani aveva però visto ridursi, tra morti e partenze i 47mila degli anni Trenta nei meno di 30mila del 1945. Le ferite e i pregiudizi restavano tutti lì, mentre cresceva pian piano la coscienza di quanto accaduto. Qualcosa che Riccardo Calimani, nato a Venezia proprio nel 1946, deve confessare ai suoi nipoti: all’epoca «superava la nostra capacità di immaginazione».

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