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Tutti i limiti sociali della lotta al virus su un Paese sfiancato

PIER GIORGIO ARDENIITALIA

L’anno Ventuno del XXI secolo - anno dantesco - si è chiuso e ancora enumeriamo contagiati e deceduti, «sì lunga tratta / di gente, ch’io non avrei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta» per una pandemia che non pare avere fine. Mentre il Paese tira avanti, come sempre diviso tra i felici pochi e gli infelici molti, il governo di Mr Draghi pare giunto alla fine della corsa. Perché anche se la trincea scavata «a difesa del Pil» ha retto (Revelli), i solchi nel corpo sociale si sono ampliati e il corpo politico è in pezzi.
Sulla pandemia, il governo persevera nella chiamata alle armi dell’inoculazione di massa, mentre il virus dilaga senza che nulla venga fatto per prevenirne la diffusione. Quando già andavano prescritti tamponi per tutti e per ogni occasione, si è inventato un «pass» divenuto poi un lasciapassare per il contagio. Era noto che i vaccini perdessero d’efficacia, ma non si è provveduto per tempo. Ora tanto l’Oms quanto gli scienziati domandano cautela sull’obbligo come su terze e quarte dosi, avvertendo di non sottovalutare effetti collaterali e la necessità di rendere individuale il trattamento, ma il governo tira diritto. Come se la costrizione potesse piegare un’esitazione che ha radici profonde quanto diffuse per lo più tra le fasce emarginate e in condizioni di sofferenza.
Si sapeva che il nostro sistema sanitario territoriale avrebbe sofferto ma in due anni non è stato potenziato con mezzi e personale, come non si è fatto alcunché per diversificare la lotta alla pandemia. E la scuola, oggi, come negli ultimi ventidue mesi, è alle prese con gli stessi problemi, forzando per la riapertura a tutti i costi.
Alla fine, da noi come altrove, il solo «approccio» che è prevalso è la vaccinazione di massa, l’unico che può essere perseguito senza cambiare altro, perché confacente al liberismo di anni di politiche di riduzione della spesa pubblica, confermate dal governo.
Secondo l’Unione europea, «nel decennio precedente l’epidemia Covid-19, la spesa sanitaria italiana è stata nettamente inferiore alla media Ue, sia in termini pro-capite che in rapporto al Pil», 8.7% contro il 9.9% nel 2019. E la previsione di spesa contenuta nell’ultima Legge di Bilancio vede un’incidenza sul Pil sempre minore: 7.5% per il 2020, 7.3% nel 2021, 6.7% nel 2022 fino al 6.1% del 2024, quando la spesa in euro sarà sostanzialmente uguale a quella del 2019, pur in presenza di un aumento stimato del Pil.
Un governo insediatosi all’insegna della «gestione dell’emergenza» ha definitivamente portato alla messa in mora di qualunque prospettiva politica. Il «Piano di rinascita» che poteva essere il terreno di un confronto proficuo si è ridotto in un gigantesco atto tecnico-burocratico, senza respiro programmatico e strategico. Le politiche economiche e sociali hanno trovato contrari appena parte dei sindacati e con milioni di famiglie indigenti e di lavoratori precari o poveri non si è stati capaci di avviare un po’ di redistribuzione.
Il governo dell’autorevole premier che il mondo ci invidia non ha saputo partorire che una legge di bilancio iniqua come le molte che l’avevano preceduta. L’avrà anche fatto «esautorando» le Camere (Azzariti), ma non va dimenticato che questo è un Parlamento composto da una folta schiera di eletti «fai da te», accanto a un’altra di «nominati» dalle segreterie. E sarà il Parlamento meno autorevole di sempre che dovrà eleggere il prossimo Capo dello stato e non potrà che sceglierne uno alla sua altezza.
Si è dunque chiuso il Ventuno e un decennio iniziato con il professor Monti chiamato a salvare l’Italia priva di rotta sotto la guida del premier più incompetente di sempre, oggi in lizza per il Quirinale. E se il professore somministrò «austerity» secondo la prescrizione di San Matteo – a chi più ha, più sarà dato – lo fece con l’ausilio delle sinistre, senza cui il comico del «vaffa» non si sarebbe affermato alle successive elezioni. Certo, poi arrivò il «rottamatore» a dire che se il nostro reddito pro capite non è più tornato ai livelli del 2007 è perché le imprese non possono licenziare, dando così la stura alla debacle del 2018. Selezionando lui, però, le comparse fedeli da far sedere in Parlamento.
Un altro Ventuno, un secolo fa, si chiuse con un Parlamento debole e un Paese sfiancato. Come allora, il ventre molle della nazione appare insofferente verso chi reclama voce, condizione e diritti, e voglioso di una guida forte, senza fronzoli e inutili discussioni. Dobbiamo dunque prepararci al peggio? Nulla lascia sperare, se non fosse che l’insipienza di una classe politica, forse, è inferiore al Paese che rappresenta. Dal Draghistan si può uscire.

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