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Scavando il presente

VALENTINA PORCHEDDUITALIA/LAMPEDUSA

Lampedusa è uno scoglio di venti kmq di superficie in mezzo al Mediterraneo. Più a sud di Tunisi e di Malta e a nove ore di navigazione dalla Sicilia è al centro di due continenti, l’Europa e l’Africa. L’isola divenuta tristemente famosa per gli sbarchi dei migranti, approdo ma anche confine, è ora un caso studio di archeologia contemporanea, i cui risultati preliminari verranno presentati oggi per la prima volta nella cornice di TourismA, il Salone dell’archeologia e del turismo culturale in corso a Firenze.
L’EVENTO SI INSERISCE nel convegno Scavare il presente. Come l’archeologia può indagare l’età moderna e contemporanea, a cura di Giuliano Volpe e Giuliano De Felice dell’Università di Bari Aldo Moro. La ricerca sulle migrazioni è condotta da Francesca Anichini del Laboratorio Mappa - Metodologie digitali applicate all’archeologia, afferente al Dipartimento civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa. È la stessa Anichini a parlarne al manifesto: «Il progetto nasce con lo scopo di accrescere il ruolo dell’archeologia contemporanea, ancora poco praticata in Italia». «L’archeologia – continua – si concentra sullo studio del passato ma, un po’ in disaccordo con questa definizione, direi che studia soprattutto le tracce lasciate dall’uomo».
Esaminare le fonti materiali in quanto testimonianze difficilmente strumentalizzabili, sebbene non del tutto neutrali, può contribuire alla lettura del fenomeno migratorio, una delle maggiori emergenze del nostro tempo. «Nel contesto di una narrazione mediatica che spesso nasconde o mistifica la realtà, noi archeologi siamo chiamati a prenderci una responsabilità politica e sociale offrendo il nostro punto di vista sugli eventi», dichiara con convinzione la studiosa che lo scorso novembre si è recata a Lampedusa assieme al collega Gabriele Gattiglia e all’antropologa culturale Caterina Di Pasquale. Con loro anche il videomaker Nicola Trabucco. «La prima traccia archeologica in cui ci siamo imbattuti – racconta Anichini – è il paesaggio, che è già di per sé un confine. L’isola la puoi abbracciare con lo sguardo da una sponda all’altra». I bunker individuabili su scogliere e spiagge indicano che la presenza militare, qui, è storicizzata. Avamposto durante le due guerre mondiali ed ex base Nato, Lampedusa è presidiata da tutte le forze di polizia.
I droni di Frontex fendono costantemente l’orizzonte. Il filo spinato – confine dentro al confine – è ovunque. Nelle due campagne di ricognizione effettuate finora, Anichini e la sua squadra hanno applicato il metodo archeologico perlustrando – con l’aiuto di sistemi informatizzati per la geolocalizzazione e la schedatura – spiagge e cale nonché alcuni punti interni dell’isola.
LE DIFFICOLTÀ non sono mancate in quanto, non essendo sepolta, la traccia contemporanea ha una caducità che provoca rapidamente trasformazioni o sparizioni. Un punto di forza sul quale gli archeologi possono contare è invece l’opportunità di attribuire con più immediatezza un significato ai ritrovamenti. Il lavoro di documentazione ha riguardato innanzitutto le imbarcazioni con le quali i migranti arrivano sull’isola. Di quelle inabissatesi nel tratto di mare tra la Tunisia, la Libia e Lampedusa assieme ai corpi, le mareggiate portano a riva – talvolta in quantità massicce – i resti.
«I media ci hanno abituati alla parola barcone ma le imbarcazioni da noi identificate raccontano una storia diversa - spiega Anichini - La tipologia di barche è cambiata negli anni perché sono cambiate le rotte e gli accordi geopolitici», continua la ricercatrice. Ora si riscontrano non solo pescherecci ma anche gommoni, gozzi e barchette medio-piccole in vetroresina le cui intercapedini sono riempite di Pvc espanso, materiale che fluttua sul mare, mettendo in evidenza anche l’impatto ambientale provocato dal circuito (e dal business) delle migrazioni illegali.
LE DIMENSIONI RIDOTTE e la precarietà delle imbarcazioni catalogate, rivelano una rotta tunisina – più breve – che si affianca a quelle libica e algerina. Gli archeologi hanno anche lavorato nei terreni un tempo occupati dalle discariche all’interno dell’isola, come l’Area Rossa, all’estremità occidentale, uno dei cimiteri dei barconi, incompiuti musei della memoria. Qui, le impronte degli scafi sono suggerite dalle parti metalliche sopravvissute ai roghi.
Il mare toglie e riporta di continuo anche gli oggetti appartenuti ai migranti. «Tra tutti i giubbotti di salvataggio raccolti ce n’è uno che mi ha colpito particolarmente – dice Anichini; in effetti aveva solo l’involucro di un vero life-jacket, probabilmente riciclato, ma era riempito di polistirolo e rattoppato con nastro adesivo».
UN ALTRO OGGETTO che illustra bene la miseria e l’ingiustizia delle rotte clandestine è un corpetto di protezione utilizzato per montare a cavallo, inutile e persino dannoso in caso di naufragio. Anichini lo ha riconosciuto subito perché uguale a quello della figlia, che pratica l’equitazione. Se a volte capita di ricostruire brandelli di storie personali, come quella dell’uomo che aveva pagato la bolletta dell’acqua a Tunisi poco prima che gli archeologi ritrovassero il documento in un paio di pantaloni, sono piuttosto fenomeni globali come il fast-fashion ad emergere.
«Abbiamo rinvenuto delle scarpe Nike, di modelli abbastanza recenti ma ormai superati in Europa – racconta ancora Anichini -; subito viene in mente il pregiudizio secondo il quale il migrante è fintamente povero perché possiede indumenti o calzature di marca – va avanti l’archeologa; in realtà da queste tracce viene fuori un pezzo di quella folle economia che sfrutta la manodopera dei paesi nordafricani e africani, per rivendere a cifre elevate in Europa brand alla moda». Oggetti che poi ritornano nei paesi del terzo mondo come scarti del consumismo.
Il vero «fossile guida» delle ricognizioni dell’équipe dell’Università di Pisa sono però le bottiglie di plastica. Inventariate per forma e provenienza, ce ne sono a centinaia. «Se dovessimo giudicare secondo la nostra esperienza, penseremmo che i migranti si portino in viaggio scorte di acqua potabile», afferma Anichini. Ma un cordino legato al collo delle bottiglie, bottiglie legate fra loro – e con esse flaconi di detersivo e taniche – non lasciano dubbi: i contenitori fungono anche da galleggianti di fortuna. Chi parte conosce il rischio, tanto più se arriva dai paesi del Corno d’Africa e non ha mai affrontato il mare. «Ci sono anche bottiglie che sembrano piene di aranciata – prosegue la ricercatrice; poi l’evidenza ti costringe ad ammettere che si tratta di urina. Quando si viaggia in mare, magari stipati nelle stive, in qualche modo ci si deve organizzare, e le donne incontrano in questo caso maggiori difficoltà».
UN ALTRO ASPETTO sul quale gli archeologi hanno lavorato è quello dei corpi abbandonati al loro destino. Una ricognizione a campione di una parte dei cimiteri siciliani, oltre a quello di Lampedusa, ha mostrato che raramente i migranti hanno diritto ad una sepoltura dignitosa. Al gesto di due cittadini di Agrigento che ne hanno accolto due nella cappella di famiglia, si contrappone la schiera di lapidi anonime, in cui campeggiano numeri asettici o la dicitura «extracomunitario».
«Quest’indifferenza e assuefazione al dramma degli altri è intollerabile - confessa Anichini, che poi conclude - La sepoltura è un elemento tipicamente archeologico ma penso che oltre a documentare i tesori del passato si debba contribuire a denunciare le vergogne del presente. L’archeologia deve dare fastidio».

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