COMMENTO

L’obsolescenza di un’economia insostenibile

Sciopero/1
MARIO NOERA, ROBERTO ROMANOITALIA/ROMA

Sono tre i temi sollevati dallo sciopero generale di Cgil e Uil, tutti decisivi per il futuro del Paese: il lavoro frammentato e precarizzato; il sistema di ammortizzatori sociali del tutto inadeguato; il sistema previdenziale ereditato dalla Legge Fornero ingiusto e sperequato. C’è un evidente legame tra queste grandi questioni, ma l’asse causale non è quello evocato dalla narrativa ufficiale. Non sono i pensionati la causa dell’impossibilità per i giovani di accedere ad un lavoro stabile e dignitoso.
Lo sono, invece, la diffusione del lavoro a tempo determinato e del caporalato attraverso le false partite Iva che sottraggono base contributiva al sistema pensionistico e lo rendono finanziariamente vulnerabile. Non è la flessibilità del lavoro che migliora la produttività, ma l’innovazione e gli investimenti che la stabilità dei rapporti di lavoro invece favorirebbe. Non è la pigrizia delle persone che alimenta la disoccupazione, ma la carenza di domanda di beni, a sua volta depressa da livelli salariali tra i più bassi d’Europa.
Sebbene la Legge di Bilancio non possa risolvere simultaneamente le questioni sollevate dalla rivendicazione dei sindacati, l’assenza di una prospettiva di governo in merito a questi temi è disarmante. Riprogettare il Paese è sicuramente un esercizio molto difficile che non si risolve certo con la bacchetta magica. Necessita di una visione di lungo termine che sappia ricombinare lavoro, capitale, ambiente e Stato per rispondere alla fatale obsolescenza di un modello economico e sociale palesemente insostenibile.
Questo esercizio implicherebbe una severa analisi delle difficoltà strutturali da affrontare ed una capacità della politica di disegnare su di esse le priorità di intervento. Richiederebbe anche una onesta autocritica rispetto alle politiche perseguite negli ultimi decenni, così come richiederebbe la riabilitazione dell’idea che lo Stato non esiste soltanto per rimediare ai fallimenti del mercato, ma che è lo strumento necessario per governare le complessità del cambiamento.
Ci si augurava che il Recovery Plan potesse essere la piattaforma per ricostruire una tale prospettiva, ma, dopo gli entusiasmi iniziali, esso rischia di diventare solo l’alibi per una semplice lubrificazione dell’esistente. La Legge di bilancio si colloca in questa visione minimalista: mentre Istat e Censis ci mostrano la fotografia di un’Italia impoverita, divisa da gravi diseguaglianze ed afflitta da emarginazioni sempre più ampie e drammatiche, la politica si limita ad offrire solo anestetici.
Al centro della scena c’è la riforma fiscale e le forme di finanziamento pubblico. Contrariamente a quanto alcuni commentatori sembrano talvolta insinuare, non è una questione di difesa corporativa di una categoria contro altre (il lavoro dipendente sottopagato contro i ceti medi). È una questione di assetto generale del sistema.
La pressione fiscale è di norma direttamente proporzionale alla complessità del modello di sviluppo e di equità del modello sociale desiderato, e la discussione andrebbe sviluppata sull’effettiva efficienza del sistema (ad es. il trattamento separato delle le rendite finanziarie ed immobiliari) e sull’equa distribuzione dei suoi oneri (ad es. la determinazione delle basi imponibili e la progressività del prelievo).
Il metro di giudizio non dovrebbe cioè essere se il livello del prelievo fiscale sia in media basso o alto, ma se sia coerente o incoerente con il benessere dell’intera collettività. Lusingare i ceti medi con scelte minute come la riduzione delle tasse per alcune categorie piuttosto che di altre sono solo esercizi di demagogia che allontanano, anziché avvicinare, la soluzione. Se lo Stato riduce indiscriminatamente le entrate fiscali è inoltre inevitabile che nel tempo si riducano anche i servizi pubblici.
Questo approccio tende ad erodere il ruolo e il peso dell’intervento pubblico riferibile all’art. 3 della Costituzione (cioè la rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione dell’eguaglianza dei cittadini e dello sviluppo della persona umana). I diritti di seconda generazione di Bobbio possono essere esercitati solo con una pressione fiscale adeguata in cui tutti i redditi concorrono secondo il principio di progressività. In quest’ottica, quale è il senso di tagliare l’Irap, cioè la fonte primaria di finanziamento del sistema sanitario nazionale?
Il sistema fiscale non è neppure lo strumento che può risolvere la scarsa redditività delle imprese e i bassi salari. La focalizzazione ossessiva sul cuneo fiscale non può essere l’alibi per eludere i problemi (bassi investimenti, poca ricerca, piccola dimensione, mancanza di politiche industriali adeguate ecc.) che limitano la capacità delle imprese di generare valore aggiunto e di remunerare adeguatamente il lavoro. La pandemia e soprattutto la ripresa economica ci hanno restituito un mercato del lavoro non solo incompatibile con qualsiasi ipotesi decente di società, ma anche incapace di funzionare all’altezza delle necessità di sviluppo e di modernizzazione del Paese.
Una vera svolta sarebbe una legge delega capace di riscrivere le regole di ingaggio nel mercato del lavoro e di attrezzare un sistema di sicurezza universale capace di proteggere i lavoratori nei processi di trasformazione produttiva in atto. Ma nell’Italia politica di oggi questa riflessione è del tutto assente e suona addirittura provocatoria.
Lo sciopero generale rappresenta un tuffo salutare nella realtà; restituire una prospettiva di cambiamento al disagio è anche una sollecitazione a ripensare le condizioni che possono davvero riprogettare un futuro di benessere all’intero Paese.

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