CULTURE

Alessandra Carnaroli, l’arte di setacciare la vita

«50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti»
NICCOLÒ NISIVOCCIAITALIA

Si intitola 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti (Einaudi, pp. 120, euro 11) ed è l’ultima raccolta poetica di Alessandra Carnaroli che conferma il carattere delle precedenti sillogi – in particolare una certa inclinazione a raccontare il mondo e la vita, com’era stato già notato, nella loro nudità e «senza piangersi addosso».
La poesia di Carnaroli non vuole essere poetica nell’accezione più immediata, è l’opposto del lirismo e vuole raccontare ciò che vede e che vive attraverso il disincanto, o addirittura attraverso la dissacrazione, senza concessioni né all’abbellimento né anche solo all’accondiscendenza. Ed è infatti una poesia nella quale è centrale la presenza del quotidiano, data da riferimenti a parole e cose di tutti i giorni: ma dentro contesti che tendono a modificarne o a rovesciarne il senso abituale, fino a trasformarlo apparentemente in assurdo. Ecco: in 50 tentati suicidi tutto questo è così vero che la dissacrazione arriva a generare situazioni di straniamento e di surrealtà tout court.
DIVISO IN DUE SEZIONI, come le annuncia il titolo stesso, la prima è dedicata ai «tentati suicidi» (che spesso, forse, in realtà non sono neppure tentati, ma solo progettati o immaginati); la seconda alla descrizione di possibili omicidi attraverso cinquanta «oggetti contundenti» diversi (dove anche gli omicidi sembrerebbero a loro volta proiezioni immaginative invece che tentativi andati a buon fine). Comune alle due sezioni, se vogliamo, è quindi il tema della violenza, rivolta verso di sé nella prima parte e verso gli altri nella seconda: ma è una violenza che appare quasi sempre paradossale, appunto, e non tanto perché sembra perlopiù esaurirsi in un pensiero (desiderante più che temuto), privo di conseguenze pratiche, quanto per via dell’effetto provocato dal contesto. Leggiamo, ad esempio, fra i «tentati suicidi»: «raggiungere lo stato profondo/ che solo dash bucato lavatrice/di sporco»; «chiedo malattia terminale/ melanoma almeno macchia sospetta/ sul tallone dove batte l’adidas/ in promozione/ di un numero più piccolo/ del mio reale dolore»; «una cravatta di mio marito meglio/ una cinta di accappatoio più lunga/ che assorbe saliva se sbavo»; «rimandare appuntamento eco/ seno per anni evitare auto/ palpazione ogni mese sperare/ formazione vari tumori/ rifiutare chemio/ come brigliadori/ pisciare/ e bere». Oppure, fra gli «oggetti contundenti»: «una borraccia/ per sciacquarti la faccia di te/ di tuo figlio/ dal sangue/ darti da bere sì/ ma da un occhio/ poi a tracolla stretta/ per non perderla in montagna/ tra le mucche/ che vi piacciono»; «forbici/ questa è banale dài/ tranne che se le apri/ quando già sono nella carne/ puoi fare come delle stelle ninja/ sulle braccia».
SI TRATTA DI UNA VIOLENZA alleggerita e sfumata dall’ironia, dal grottesco, talvolta perfino dal comico; e l’andamento, il ritmo, il passo, sono veloci, guizzanti, quasi filastrocche. Ma l’assurdo è solo apparente: la verità è che, al fondo, il tema rimane serissimo. Ed è anzi proprio qui, in questo scarto fra apparenza e realtà, in questo gioco di rimandi, in questa alternanza fra sorriso e coscienza, che risiede la forza della poesia di Alessandra Carnaroli: perché non c’è gesto, nella sua raccolta, non c’è tentato suicidio né tentato omicidio dietro ai quali non s’intraveda la manifestazione di un vero dolore, di una vera sofferenza, di un vero disagio. Ai gesti è dato uno scampo, al dolore no; e la sofferenza sopravvive ai suicidi o agli omicidi mancati.
SIAMO ALLORA su un terreno diverso da quello sul quale si muovevano i tentati suicidi di quel meraviglioso film di Hal Ashby di molti anni fa al quale viene da pensare, Harold e Maude: Harold inscena continuamente il proprio suicidio ma la vita non gli è né gli sarà ostile. Al contrario, tutti i gesti di 50 tentati suicidi, per quanto anche solo immaginati, rivelano nel loro retroterra vite sfaldate, frantumate, intimità smarrite, impoverite. La famiglia ne rappresenta il teatro, la scena, e nessuno dei suoi componenti ne viene risparmiato: le morti pensate o desiderate sono quelle dei bambini non meno di quelle degli adulti. Infine è una denuncia, pur senza altri fini se non quelli di restituire la parola a ciò che abbiamo davanti agli occhi e facciamo fatica a nominare, del tempo che siamo, che attraversiamo, pieno di una sofferenza anche sommersa, anche tenuta nascosta, anche taciuta.

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