INTERNAZIONALE

Ucraina, Zelensky grida al «golpe con l’aiuto russo»

Ma il vero timore è lo scontro interno sugli accordi per il Donbass tra Usa e Russia
LUIGI DE BIASEucraina/russia

Ai ripetuti appelli della Nato e degli Stati Uniti sui movimenti delle truppe russe ad alcune centinaia di chilometri dal confine ucraino, il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha risposto sino a questo momento con una inspiegabile flemma, arrivando persino a smentire alcuni dei rapporti ricevuti da quelli che in fin dei conti già considera alleati strategici sul piano militare. Ben più preoccupato Zelensky appare di fronte allo scontro tra clan che si consuma senza interruzione ai piani alti del Paese, e di cui la rivolta del 2014, culminata con la fuga dell’ex presidente Viktor Yanukovich, rappresenta soltanto un episodio: iconico e cruento, ma pur sempre un episodio in uno scontro più vasto. «Ho ricevuto dalle agenzie di intelligence informazioni su un colpo di stato che potrebbe avvenire tra il primo e il due dicembre», ha detto giovedì, citando, poi, il ruolo di agenti russi e soprattutto quello di Rinat Akhmetov, 55 anni, l'uomo più ricco del paese, originario di Donetsk ma da tempo a Londra e ancora legato all’Ucraina da interessi economici stimati in otto miliardi e mezzo di euro, nonché dall’enorme influenza che questo patrimonio gli permette di esercitare sugli apparati statali.
CHE AKHMETOV SIA coinvolto in un complotto contro Zelensky e che il complotto si verifichi davvero ai primi di dicembre è tutto da dimostrare. Ma le tensioni interne sono per Zelensky un pericolo più vicino rispetto all'invasione russa: in una certa misura questa seconda ipotesi, per quanto lontana, potrebbe anche dipendere dalle prime.
A settembre il primo consigliere di Zelensky, Sergey Chefir, ha scampato la morte per puro caso durante un agguato a una trentina di chilometri da Kiev. Nel paese ci sono 45.000 uomini addestrati alla guerra e reclutati nella Guardia nazionale anche da formazioni neofasciste. Il loro referente, l'ex ministro dell'Interno Arsen Avakov, ha lasciato il governo quando è stato chiaro che Zelensky avrebbe dovuto accettare accordi svantaggiosi sul Donbass, accordi che peraltro non sono ancora applicati. La possibilità di provocazioni è elevata. Il loro esito è incerto.
PROPRIO PER DISCUTERE di Donbass è in programma entro fine anno un nuovo vertice a distanza fra il presidente americano, Joe Biden, e quello russo, Vladimir Putin. Ma questi colloqui, che riguarderanno l'architettura della sicurezza globale, potrebbero essere anticipati da contatti diretti che proprio Biden vuole intraprendere già nelle prossime ore con il Cremlino e con Kiev per ridurre le tensioni. Il problema è che oggi Putin non sembra interessato a soluzioni di breve termine. La settimana scorsa ha chiesto al responsabile degli Esteri, Sergei Lavrov, di ottenere «garanzie stabili»" dall'Europa e dagli Stati Uniti, e quindi definire quelle che in altre occasioni lo stesso Putin ha chiamato «linee rosse». Poche ore più tardi Lavrov ha pubblicato sul portale del suo ministero la corrispondenza riservata con i colleghi di Francia e Germania sui negoziati per il Donbass. Si tratta, come si capisce, di una scelta ben poco diplomatica, di una forzatura il cui obiettivo è spingere gli interlocutori su posizioni più concrete rispetto a quelle mantenute sinora, e che potrebbe anche produrre il risultato opposto.
I RISCHI DI UN MANCATO accordo sono chiari a tutti a Mosca. La scorsa settimana Dmitri Trenin dell'istituto Carnegie di Mosca, non proprio il pulpito del putinismo, ha paragonato l'Ucraina a una portaerei straniera parcheggiata nel cortile di casa: qualsiasi leader russo, ha detto il politologo, userebbe ogni mezzo per evitare l'ancoraggio. All'analisi di Trenin è seguita in settimana quella di Fedor Lyukyanov, tra gli architetti della politica estera russa, secondo il quale nei prossimi mesi potrebbero verificarsi eventi in grado di condizionare pesantemente le future vicende dell'Europa. Senza accordi chiari, per esempio sul legame fra Ucraina e Nato, esiste il rischio di un intervento militare simile a quello del 2008 in Georgia. la via d'uscita potrebbe passare, sostiene sempre Lyukyanov, per la cosiddetta «finlandizzazione» della crisi. In questo ragionamento non si può ignorare il punto di vista, in parte cinico, della classe dirigente russa sull'utilizzo dello strumento bellico. Da quando è al potere, Putin lo ha usato in Cecenia, in Georgia, in Ucraina e in Siria: sin qui neanche una sconfitta.

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