PRIMA

I nuovi alibi su ambiente e questione sociale

Dopo Glasgow
FILIPPO BARBERA ITALIA

Nella società contemporanea, il razzismo si esprime nella forma della denegazione: «Io non sono razzista, ma...», scriveva nel 1993 Étienne Balibar ne “Le frontiere della democrazia” (Manifesto libri).
La denegazione è l’espressione linguistica del mancato riconoscimento del desiderio e, come tale, costituisce uno strumento per occultare il rimosso. Serve a non vedere ciò che, se ammesso, ci porrebbe di fronte a domande scomode e a interrogativi che ci rifiutiamo di affrontare.
Attraverso la forma della denegazione, il razzismo diventa senso comune e: si annida tra le pieghe del dato-per-scontato e assume funzioni di legittimazione politico-culturale. Diventa, per così dire, accettabile agli occhi degli altri ed egemonico allo stesso tempo. «Io non sono razzista, ma…».
OGGI, LA DENEGAZIONE ambientale si presenta nella stessa forma: «Io non sono contro l’ambiente, ma». Anche in questo caso, la denegazione si nasconde nella trama della vita quotidiana, nei «discorsi da bar» che puntellano la concezione del mondo propria dello status quo, di chi non è interessato a cambiare l’esistente.
Nel Quaderno 24, Antonio Gramsci scriveva che il senso comune è il «folklore della filosofia» e accoglie la concezione del mondo della nuova classe che, di volta in volta, è diventata dirigente e ha sostituito quella che deteneva precedentemente il potere.
La denegazione ambientale si esprime nei cosiddetti «discorsi sul ritardo climatico», cioè in quelle forme di intenzionale e consapevole ritardo dell’azione politica che giustificano le posizioni conservatrici. Quelle posizioni che difendono i compromessi di Glasgow con la bontà o la necessità di azioni minimali o attraverso azioni che dovrebbero anzitutto spettare ad altri e non «a noi».
DISCORSI, QUESTI, che concentrano l’attenzione sugli effetti sociali negativi delle politiche climatiche radicali, che sollevano dubbi sulle conseguenze positive della mitigazione o che ne mettono in dubbio la possibilità effettiva. Un gruppo di studiosi di diverse Università europee ha analizzato questi «discorsi» e le relative argomentazioni, individuando quattro macro-categorie: «Proporre soluzioni non trasformative», «enfatizzare gli aspetti negativi della transizione», «reindirizzare la responsabilità» o «arrendersi» alla presunta impossibilità di mitigare i cambiamenti climatici (Lamb, W. E altri (2020). Discourses of climate delay. Global Sustainability, 3, E17. doi:10.1017/sus.2020.13). Quattro insiemi al cui interno si sviluppano dodici tipi di argomenti più specifici e focalizzati.
COSÌ, IL SOLUZIONISMO tecnologico diventa un modo per negare la necessità di soluzione radicalmente trasformative dell’esistente, tanto «ci penserà la tecnologia»; mentre il re-indirizzamento della responsabilità si esprime in locuzioni come «è inutile agire, tanto gli altri non lo vogliono fare»; e tanto il massimalismo/perfezionismo che il catastrofismo bloccano l’azione possibile qui e ora. Si tratta degli stessi temi analizzati da Michael Mann nel suo recente saggio “La nuova guerra del clima” (Edizioni Ambiente, 2021): il negazionismo climatico si esprime in varie forme, sempre indirette, il cui antecedente è «io non sono contro le politiche ambientali, ma…». Alcune di queste sono subdole e all’apparenza progressiste, altre imperniate sull’impossibilità o sull’inutilità del cambiamento, altre ancora che fanno leva sulla sovranità del consumatore o sui costi eccessivi del cambiamento radicale.
«Sarà un bagno di sangue», come ha dichiarato il Ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani.
O l’elettrico non è il verbo, come sostiene, in aperta polemica con Bruxelles, Confindustria a proposito dell’obiettivo di riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030. Questi «discorsi» sono tanto più pericolosi anche perché trasversali allo spazio sociale e politico. Proprio come il senso comune, sono indifferenti all’asse destra-sinistra o al posizionamento di classe e alle forme di capitale sociale e culturale: sono discorsi ubiqui e indifferenziati, che uniscono e non dividono.
PER QUESTO, SI TROVANO a sostegno delle strategie politiche di chi non vuole cambiare lo status quo, di chi - come il Ministro Cingolani - non vuole mettere in discussione gli aspetti produttivi, pre-distributivi e redistributivi che invece qualificano le politiche climatiche radicalmente trasformative. Politiche che dovrebbero combattere le posizioni di rendita, abbassare le barriere all’entrata di interi settori produttivi, disegnare forme democratiche di accesso alla conoscenza, redistribuire il potere e la possibilità di utilizzo degli asset produttivi, tornare a investire sulla creazione di ricchezza inclusiva e sul valore pubblico dell’economia.
Niente di tutto questo è compatibile con i «discorsi sul ritardo climatico» che pretendono di affrontare una transizione che mette in discussione i fondamenti stessi di un modello di civiltà, quella «termoindustriale», attraverso processi graduali e soluzioni di breve periodo.
@FilBarbera

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