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Noi saremo i prossimi

SILVIA FROSINACINA/HONG KONG

Il 30 giugno 2020, dopo quasi un anno di proteste antigovernative, il governo centrale cinese ha introdotto una legg  sulla sicurezza nazionale che punisce i crimini di secessione, sedizione e collusione con le forze straniere ad Hong Kong. Da allora, più di cento persone sono già state arrestate e almeno 60 sono state condannate per reati riconducibili alla nuova legge.
Tra i più colpiti ci sono studenti, partiti politici e media, ma anche i sindacati dei lavoratori che nel 2019 diedero slancio al movimento pro-democratico.
La repressione cresce con l’avvicinarsi delle date che Pechino considera «politicamente sensibili», come il 1° luglio, che oltre ad essere la data della cessione dell’ex colonia britannica alla Cina, quest’anno ha segnato anche il centenario della fondazione del Pcc. Eppure, ad Hong Kong, l’attivismo politico e pro-democratico esiste ancora. Ma come si organizza? Qual è il suo margine
d’azione e quali sono i suoi obiettivi? Risponde un attivista della Hong Kong Confederaton of Trade Unions: il principale gruppo politico e sindacale del campo pro-democratico.
La storia di Hong Kong è fatta di date simboliche a cui di solito corrispondono scioperi e manifestazioni di piazza. Come si vivono queste giornate con la nuova legge?
A Hong Kong ci sono state manifestazioni ogni 1° luglio dall’handover, ma quest’anno, per il secondo anno, la gente non è potuta scendere in strada. Nel 2020 è stato per la pandemia,
quest’anno per la legge sulla sicurezza. Alcuni gruppi della società civile hanno provato lo stesso a lanciare iniziative, ma non hanno potuto farlo nel modo a cui siamo abituati. A Causeway Bay, da cui tradizionalmente partono i cortei, c’erano molte persone che passeggiavano, su e giù, probabilmente nella speranza di riuscire a manifestare. Ma c’era polizia ovunque e il clima era teso.
Noi come gruppo politico e sindacale siamo riusciti solo a distribuire volantini e la nostra rivista. Questo è il massimo che possiamo fare al momento e anche così un po’ si rischia: la polizia prendeva i volantini e li leggeva per controllare cosa ci fosse scritto. Va detto, però, che la repressione colpisce più sistematicamente gli studenti che i sindacati. Il 1° luglio, ad esempio, hanno arrestato alcuni studenti, ma nessun sindacalista, nonostante stessimo facendo le stesse cose: distribuire volantini e riviste.
Perché si prendono di mira gli studenti più dei sindacalisti?
Le organizzazioni studentesche hanno avuto un ruolo di primo piano nei movimenti sociali degli ultimi dieci anni; hanno una presa sui giovani che noi non abbiamo e questo li rende più pericolosi. Questa è anche la ragione per cui Pechino vuole rivedere i curricula di insegnamento a tutti i livelli. I sindacati non hanno avuto un ruolo altrettanto attivo nel far crescere i movimenti che hanno attraversato Hong Kong. C’è stata, è vero, un’ondata di sindacalizzazioni nel 2019, ma è arrivata a proteste già iniziate. Agli occhi del governo non siamo pericolosi quanto gli studenti.
Come è cambiata la vostra attività nell’ultimo anno?
Sicuramente sono cambiati i nostri rapporti con l’estero: siamo molto più preoccupati e attenti nel ricevere fondi stranieri. La legge punisce la collusione con le forze straniere, quindi quando interagiamo con soggetti all’estero cerchiamo di dialogare con le organizzazioni della società civile piuttosto che fare lobby sui governi come accadeva prima. Stiamo anche più attenti a esprimere
pubblicamente le nostre opinioni politiche, e questo include ciò che scriviamo sui social media. Il problema con la nuova legge non è tanto ciò che è proibito, ma ciò che si percepisce come tale. Spesso per non rischiare si ricorre all’autocensura e così la libertà di parola diventa quasi inesistente. In termini di organizzazione delle attività, troviamo sempre più difficile coinvolgere gli attori
tradizionali - per esempio i rappresentanti dei partiti politici. Riusciamo a partecipare ad iniziative politiche o a organizzarle insieme ad altri sindacati del campo pro-democratico, ma raggiungere altri gruppi è davvero difficile.
Come movimento pensate ancora ad azioni politiche collettive o sono soprattutto i singoli attivisti a prendere l’iniziativa?
Direi che quando si tratta di iniziative pubbliche ci sono almeno dieci gruppi sindacali che partecipano attivamente. Altri cercano di mantenere un profilo più basso, ma sono molto ben collegati all’interno delle aziende. Quindi anche se non siamo più così attivi pubblicamente, abbiamo ancora una rete abbastanza solida. Il sindacato di H&M ad Hong Kong, per esempio, ha preso parte alle proteste del 2019 e più di recente ha lavorato con la Clean Clothes Campaign, una Ong internazionale che monitora le condizioni di lavoro in varie zone, tra cui lo Xinjiang. In questo caso l’attività sindacale si interseca con faccende politiche estremamente delicate. Ovviamente, dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza sono stati meno espliciti rispetto alla questione in Xinjiang, ma il fatto stesso di averla inserita tra le loro rivendicazioni è emblematico di un dibattito che la Nuova Sinistra sia in Cina che a Hong Kong deve stimolare: la necessità di esprimere solidarietà con altre lotte politiche per dare al movimento sindacale una prospettiva internazionale. H&M è un’azienda di vendita al dettaglio con stabilimenti di produzione nello Xinjiang ma anche in gran parte del sud-est asiatico. Il fatto che il loro sindacato si sia dimostrato interessato a vertenze che riguardano non solo i lavoratori delle sedi di Hong Kong parla di un modo di pensare al sindacalismo che dovrebbe essere incoraggiato.
Quali sono le sfide più difficili che vi trovate ad affrontare in questo momento?
Ce ne sono molte, in primis la fuga di molti sindacalisti verso altri paesi come il Canada o il Regno Unito, che rende i gruppi molto meno nutriti di prima. Siamo ancora in una fase in cui i sindacati non sono presi di mira quanto gli studenti, i partiti politici o i media, ma la paura della repressione è grande e pensiamo che saremo i prossimi. Il monitoraggio dei gruppi sociali, compresi i sindacati, è già aumentato molto e questo ci impone di essere più attenti che mai alle attività che organizziamo. Ad esempio, lo scorso 4 giugno abbiamo organizzato la proiezione di un documentario sul ruolo dei lavoratori nel movimento di protesta di Tiananmen. Abbiamo subito ricevuto una visita della polizia locale nel nostro ufficio: non ci hanno permesso di proiettare il film. In queste condizioni molti sindacati operano ai confini di ciò che è consentito, o non esplicitamente vietato. Un’attività popolare, in questo momento, è quella di lanciare campagne per sostenere
i detenuti. Scriviamo lettere e organizziamo visite agli attivisti in carcere. D’altra parte, mentre cresce il nostro impegno politico, anche a causa della mancanza di personale, siamo sempre meno attivi nelle campagne sindacali tradizionali sui temi del lavoro.
Esiste ancora un margine per l’azione politica a Hong Kong all’indomani di un cambiamento così importante? Cosa possono fare gli attivisti che decidono di non lasciare la città?
Direi che dovremmo continuare a fare quello che stiamo già facendo. Con la legge sulla sicurezza lo scopo del governo è far diventare Hong Kong una città cinese qualsiasi, al pari di Shanghai e Pechino. Ma questo scenario è ancora lontano, credo. Dopo tutto Hong Kong ha la sua storia, la sua cultura, che è fatta di libertà di parola, libertà di associazione e d’informazione. Queste non sono cose di cui ci si libera da un giorno all’altro. Faremo tutto il possibile per mantenere vivo il ricordo di questa cultura nella gente di Hong Kong. Dopo tutto è il popolo che conta e il futuro di Hong Kong dipende soprattutto dalla scelta dei cittadini di collaborare o meno con il governo. Secondo me, la cosa più importante è evitare l’atomizzazione sociale: sia le proteste che le elezioni
del 2019 hanno mostrato chiaramente che i pan-democratici sono la grande maggioranza della popolazione di Hong Kong. Questo lo sappiamo tutti. Ma ora che è difficile organizzarsi è difficile anche sentirsi uniti, e c’è il rischio che la società civile smetta di pensare se stessa come una collettività per diventare una somma di individui. Evitare che questo accada, lavorando sulla costruzione di un senso di fiducia nella comunità, è la vera sfida: è una gara tra noi e il governo, chi per primo arriverà alle persone e alla loro percezione di sé. Mi piace immaginare che saremo noi a farlo per primi.

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