CULTURE

Jimmie Durham, il performer Cherokee che amava reinventare la vita degli oggetti

ADDII
TERESA MACRÌUSA

Ancora un vuoto, ed è Jimmie Durham questa volta a lasciarlo. Un vuoto formale e umanistico, poetico e politico. Nato in Arkansas nel 1940, è stato poeta, scrittore, attivista politico e performer Cherokee, il cui impegno nelle battaglie contro l’emarginazione della cultura dei nativi d’America era confluito nel ’94 nel saggio A Certain Lack of Coherence (Kala Press).
Della sua estrosità polimorfa, ricca e molteplice, se ne era parlato insieme, in un’intervista pubblicata nel 1997 su questo giornale. Della sua polivalenza creativa Jimmy diceva: «Cerco di essere intellettualmente impegnato in ogni luogo e momento. In realtà non sono così sicuro che ci sia una grande connessione in tutto il mio lavoro. È come se avessi diverse opinioni sulle diverse cose. In questo momento ho più fiducia nella poesia che nelle arti visive, mentre sono privo di ogni fiducia nel teatro e quindi l’ho abbandonato».
PERSONAGGIO NOMADE, curioso, sornione e assai simpatico, insieme alla moglie, l’artista Maria Thereza Alves, aveva vissuto a lungo a Roma, poi a Napoli e poi Berlino, in un avventuroso scambio culturale che ne arricchiva continuamente la sua identità per irradiarla in una opera polisemica che ondivaga da forme scultoree atipiche, intense e minimalissime a libri di poesie come Columbus Day e Poems That Do Not Go Together.
Nel 1973, dopo gli studi d’arte condotti a Ginevra, Durham era diventato un attivista dell’American Indian Movement (Associazione a sostegno dei diritti dei Nativi americani) e in questi anni si era dedicato ossessivamente all’attività politica, diventando direttore dell’International Indian Treaty Council e rappresentante delle Nazioni Unite.
Alla domanda «perché ti sei definito appartenente al ramo selvaggio» dell’umanità?, aveva risposto così: «In realtà quando mi definisco selvaggio mi contrappongo sempre a una cultura differente dalla mia. In questo caso chiunque venga a Roma e provenga da una minoranza etnica può sentirsi selvaggio. Con questa affermazione mi riferivo faziosamente alla mia contrapposizione alla cristianità e a Roma che la rappresenta. Il termine selvaggio ha poi più significati: l’essere puro e il suo opposto. È una parola che è legata al contesto in cui la si usa. Probabilmente l’etre sauvage è colui che ha un rapporto più forte con la natura: tutti gli indiani d’America segregati nelle riserve e che non hanno la possibilità di conoscere il resto del paese, sono selvaggi».
DEFINENDO il suo attivismo, Durham affermava: «Nel corso degli anni ’80 ho iniziato a esporre i miei lavori in un momento in cui erano state condotte le battaglie dei movimenti femministi. Tutti gli artisti appartenenti alle cosiddette minoranze sono stati sostenuti dalle spinte del movimento delle donne. In quel periodo questo non mi appariva molto chiaramente, solo oggi riesco a metterlo a fuoco. Il primo lavoro era un collage legato alla situazione opprimente delle riserve indiane. Avevo così capito quanto l’arte poteva diventare una sorta di estensione della politica».
E poi: «Comunemente si pensa all’altro, perché si crede che questo possegga un potere che non si ha. Così gli americani credono che noi Cherokee racchiudiamo il potere di una natura magica, mentre noi pensiamo che gli americani hanno il loro potere magico racchiuso nella tecnologia. È una questione di immaginazione».
LA SUA OPERA TOTALE era basata essenzialmente sull’ostinazione decostruttiva e concettuale dei simboli della cultura occidentale e dunque sul riuso della materia e l’utilizzo dell’objet rejeté, anonimo e emarginato. Un processo che ha rivoluzionato la scultura, la pittura e persino le sue performance, sempre urticanti che intendevano trasferire l’anticonvenzionalità del suo essere. «Mi piacciono le pile di spazzatura, le trovo bellissime. Gli animali ne fanno il loro habitat mentre noi uomini ne siamo affascinati anche se normalmente non li viviamo. La spazzatura è una specie di confine tra spazio urbano e naturale».
Durham ha partecipato alle più importanti kermesse internazionali, tra cui varie edizioni della Biennale di Venezia (1999, 2001, 2003, 2005, 2013) e di Documenta (1992, 2012) e ha esposto nei più importanti musei internazionali. Non ultimo, nel 2019, alla 58/a Biennale di Venezia ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera.

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