VISIONI

Alexader Zeldin, fare teatro è un modo per cambiare il nostro sguardo sulla vita

LUCREZIA ERCOLANIITALIA/ROMA/GB

La crudeltà di un sistema che condanna le persone alla povertà, offrendo loro false speranze per poi stritolarle in meccanismi burocratici kafkiani. È questa la situazione in cui si trovano i personaggi di "Love", scritto e diretto da Alexander Zeldin - visto in scena al Teatro Argentina in corealizzazione con il Romaeuropa festival. Il drammaturgo trentaseienne si è affermato nella sua Inghilterra – regista associato al Birmingham Repertory Theatre, artista in residenza al National Theatre di Londra – dopo aver fatto esperienze in Egitto, Corea del Sud, Russia e Napoli. È tornato in Italia con uno spettacolo di alcuni anni fa, il cui senso però è completamente intatto considerato che il disagio sociale si è inasprito in seguito alla pandemia.
L’AMBIENTAZIONE è quella di un centro di accoglienza temporaneo, dove alcuni nuclei familiari sono alloggiati in attesa di ottenere una casa popolare. I giorni passano lentamente in una difficile convivenza tra persone con storie e provenienze diverse, nella costrizione di condividere bagno, cucina e spazi comuni, una fotografia delle difficoltà che tanti affrontano quotidianamente appena fuori dalla porta del teatro. Per i personaggi non c’è possibilità di immaginare un destino diverso se non in un’indefinita attesa che si allunga sempre di più,. Love è uno spettacolo profondamente umanista, il secondo di una trilogia che Zeldin ha dedicato alle disuguaglianze: il primo, Beyond Caring, era incentrato sui lavoratori temporanei; l’ultimo, Faith, Hope and Charity, sulla chiusura di uno spazio sociale per i senzatetto in seguito ai tagli dei fondi governativi. Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio i principi del suo lavoro.
Qual è il rapporto tra teatro e realtà nella tua visione?
Mi interessa il teatro come strumento per intensificare il modo in cui guardiamo alla vita. Il mondo fisico sta scomparendo a causa di internet, il virtuale avanza, per questo desidero ristabilire un tempo e uno spazio dove fare esperienza della fisicità. Potrebbe essere definito un «nuovo realismo», ma allo stesso tempo è importante per me cercare un ritmo musicale nelle parole, distante dalla spontaneità.
Da cosa deriva la scelta di tenere accese le luci in platea per tutto lo spettacolo?
L’etimologia della parola «teatro» indica un luogo che serve per vedere, questo per me include anche gli spettatori. Mi piace che non ci sia niente di nascosto, il mio sogno sarebbe un teatro che si apre ad accogliere la strada perché ciò che rende il teatro tale è il modo in cui lo si guarda.
In «Love» la condizione di chi si trova in povertà in Inghilterra è un tema centrale, come l’hai affrontato?
Nel mio Paese il 25% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, un milione di persone si nutre con il banco alimentare. La grande idea politica degli ultimi 15 anni è stata l’austerità, un modo di prendere decisioni che riguarda tutti. Ciò che ho provato a fare non è uno spettacolo sulla povertà ma piuttosto sull’amore, credo che le persone che vivono in quelle condizioni a volte abbiano molto da insegnare in proposito. Sono storie del nostro tempo, come quando Steinbeck scrisse Furore, non stava scrivendo della povertà e della crisi degli anni ’30 ma di una famiglia che viveva in ristrettezze economiche in quel periodo. È questo tipo di approccio che mi ha ispirato.
Dopo la trilogia di «The Inequalities» continuerai ad indagare tematiche sociali?
Sto entrando in un una fase più autobiografica. Penso che il mio lavoro rompa delle convenzioni nel modo di guardare la realtà, per questo il prossimo passo deve infrangere un altro livello di fiction. Penso di poterlo fare solo attraverso la mia vita, eliminando anche le barriere della mia privacy ed intimità, mantenendo sempre però un interesse per l’essere al mondo.

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