VISIONI

«Ariaferma», uno spazio comune attraverso le sbarre

Un carcere in Sardegna, due gruppi di uomini in un tempo sospeso
CRISTINA PICCINOITALIA

Ariaferma il nuovo film di Lenoardo Di Costanzo presentato Fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia - e tra i più amati della selezione - conferma il talento di questo regista il cui gesto cinematografico porta in sé, per rimodularla a ogni nuova prova l’esperienza dei passaggi precedenti. Non si tratta (non solo) di «generi», il documentario che è stato il suo primo terreno di confronto col mondo, e la «finzione» - categorie formali che non appartengono alle sue opere (L’intervallo, 2012; L’intrusa, 2017): è questione di messinscena, e di una «giusta distanza» in cui tutto si gioca lungo le traiettorie degli sguardi, nella presenza dei corpi, tra le geometrie degli spazi: un giardino in L’intervallo, un cortile in L’intrusa.
QUI SIAMO nel carcere di Mortana, nella bellezza di un paesaggio della Sardegna invisibile alle celle; gli universi che si scrutano l’uno nell’altro sono interamente maschili tranne la direttrice del carcere che esce quasi subito di scena. Hanno deciso di chiuderlo quel carcere, gli agenti festeggiano, finalmente non dovranno più andare così lontano. Ma all’improvviso il loro futuro cambia: un problema burocratico costringe a rimandare il trasferimento di alcuni detenuti che nell’attesa di una nuova assegnazione rimarranno lì, e con loro un esiguo numero di poliziotti: due gruppi di uomini entrambi imprigionati seppure con motivazioni e ruoli opposti.
«L’ordine di trasferimento può arrivare da un momento all’altro» ripete Gaetano, l’ispettore incaricato del comando. Di fronte a lui, a rappresentare i dodici detenuti c’è don Carmine Lagioia, il capo indiscusso, probabilmente camorrista (ma di nessuno si dicono i reati che lo hanno condotto in cella) giunto a fine pena. Forse anche per questo non sembra interessato a sobillare rivolte – se non una protesta su ciò che non si può sopportare, quel cibo cattivo, lo stesso peraltro che mangiano i poliziotti, consegnato dal servizio di catering. Le due parti si osservano con diffidenza, gli agenti hanno paura, mentre giorno dopo giorno la certezza di una soluzione rapida che ha persino sospeso la «normalità» quotidiana - le visite, la cucina - si allontana: il tempo scivola e insieme si immobilizza.Da queste premesse la scommessa del regista è quella di cercare un movimento narrativo che «sorprenda» il teatro in cui avviene, e quanto vi rimanda. Ariaferma non è un film «carcerario» pure se del carcere restituisce il sentimento di costrizione ma in profondità, senza l’enfasi o le convenzioni del soggetto «a tema»: l’intuizione del regista è spostare sempre un po’ obliquamente il suo punto di vista grazie a una scrittura precisa sia nella sceneggiatura – scritta insieme a Valia Santella e a Bruno Oliviero – che sul piano cinematografico.
IL PUNTO di partenza dunque per parlare del carcere sono le due figure che lo incarnano da una diversa ma comune prospettiva: il detenuto don Carmine e l’ispettore Gaetano, rispettivamente Silvio Orlando e Toni Servillo, protagonisti di un magnifico duetto in sottrazione, che poi è la cifra del film, nel quale si esalta anche la sua natura corale – grazie a un cast in cui troviamo tra gli altri Salvatore Striano, Fabrizio Ferracane, Roberto De Francesco, e molti magnifici attori non professionisti.
Lo spazio tra i due uomini disegna una geografia umana che oppone scontenti, irrequietezze, insoddisfazioni, pregiudizi, e non semplicemente di una parte verso l’altra - tra gli agenti c’è chi vorrebbe il «pugno di ferro», mentre i reclusi emarginano un anziano che si intuisce ha commesso reati di pedofilia. Poi c’è quel ragazzo giovane, spaesato più di tutti (il bravo Pietro Giuliano) finito in cella con una vita disgraziata e un crimine commesso per avventatezza di cui sente su di sé la colpa con dolore.
QUANDO la qualità pessima dei pasti diviene intollerabile scatenando uno sciopero della fame che potrebbe degenerare, l’ispettore accetta la proposta di don Gaetano: sarà il detenuto a cucinare mentre il poliziotto lo sorveglia. Nella cucina con i coltelli in bella vista la tensione è densa, cresce, accompagna ogni gesto: non accade nulla però in quella stanza, tutto è altrove perché il confronto, con la presa di parola che rimodula le relazioni seppure in un stato eccezionale, è umano e politico, ci parla delle casualità delle scelte, delle esperienze comuni anche a chi, come i due, ora è su sponde diverse. E interroga la vita nel suo svolgersi, e una realtà composta da infiniti passaggi e contraddizioni. Mentre noi spettatori ci aspettiamo che esploda il caos, la regia di Di Costanzo lo ha già fatto avvenire in quei dialoghi, nei gesti pacati, negli istanti che superano - pur mantenendone le gerarchie - la linea della separazione per inventare uno spazio comune; quello di una diversa consapevolezza dell’altro, della cura, dell’ascolto, qualcosa che riguarda il nostro tempo non solo nella reclusione.

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