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Primarie addomesticate, il cattivo esempio di Torino

GIAN GIACOMO MIGONEITALIA/torino

Quando, una cinquantina di anni fa, studenti più o meno rivoluzionari e qualche intellettuale di sinistra (ero tra quelli) si misero a compiere sempre più frequenti pellegrinaggi di fronte alla Porta Due di Mirafiori, Adriano Serafino, operatore della Fim-Cisl, mi disse: "Se non vi trovate puntuali all'entrata e all'uscita degli operai, tutti i santi giorni, pioggia o bel tempo, ai loro occhi contate meno del venditore di arance, perché lui, almeno all'uscita, c'è sempre".
In un contesto totalmente diverso, quello delle primarie organizzate dal Pd in alcune delle principali città italiane, un altro saggio, Fabrizio Barca, ribadisce lo stesso concetto. Secondo Barca non serve che un partito, qualsiasi partito, dopo cinque anni di assenza da quartieri, mercati, piazze, improvvisamente scopra che servono elettori per assicurarsi il governo di una città. Fosse anche con le primarie, soprattutto se sono utilizzate per consacrare la candidatura pre-selezionata da apparati sempre più anemici di idee, di fronte a sofferenze sociali di dimensioni e caratura pandemica.
Per quanto Enrico Letta si sforzi di fare buon viso a cattivo gioco sull'esito delle primarie a Roma e a Bologna, il problema resta. Anche se 45.000 partecipanti a Roma, ammesso che ci fossero, suonano meglio degli 11.000 di Torino, la percentuale, rispetto agli aventi diritto al voto in entrambi le città oscilla intorno al 2%. Né la fitta partecipazione di altri candidati, può oscurare il fatto che il partito organizzatore abbia costruito i rispettivi eventi con il fine di varare le candidature dei propri preferiti. A Roma sono addirittura circolati dei fac simili con il solo nominativo di Gualtieri. Soltanto le primarie di Bologna, come previsto da Barca, sia per una partecipazione che per competizione effettiva hanno costituito un esempio di quello che esse potrebbero e dovrebbero diventare in tutta Italia. Insomma, Try again, Enrico!
Purtroppo l'esempio negativo, che fa o dovrebbe fare scuola, è proprio quello che si è realizzato a Torino, nel fine settimana precedente. Attenzione, perché il diavolo sta nei dettagli che, per questa ragione, vanno rievocati. Per la verità, la maggioranza di quel Pd, controllata da alcuni signori delle tessere - per la cronaca, il senatore Mauro Laus e la famiglia Gallo, a cui si è aggiunta la benedizione degli ex sindaci Valentino Castellani, Sergio Chiamparino e Piero Fassino - per mesi ha fatto ricorso ad ogni pretesto per evitarle, quelle primarie, pur d'imporre il suo candidato, Stefano Lo Russo. Allo scopo di sconfiggere candidature più promettenti e qualificate per meriti civici, meglio in grado di assicurarsi l'alleanza della sindaca uscente, Chiara Appendino, ed i voti che avrebbe potuto mobilitare a loro favore.
Quando Enrico Letta finalmente le ha imposte, il lucido sforzo del Pd torinese, diversamente da quelli di Roma e di Bologna, per sostenere il proprio candidato, è stato quello di limitarvi la partecipazione, anticipando la data rispetto alle altre primarie in Italia e rendendo presso che impossibile il voto on line. Con il risultato di una partecipazione esigua e di una conseguente vittoria risicatissima e minoritaria del designato.
La conclusione probabile è la vittoria finale del minaccioso candidato di centrodestra, nella città un tempo affermatasi come uno dei pochi bastioni della sinistra in Nord Italia, a meno che non vi si verifichi qualche evento salvifico prima del voto di ottobre.
Le primarie possono anche costituire un evento di crescita democratica, alle condizioni dette e ripetute da Barca. Occorre, però, invertire la tradotta di una sinistra che ha liquefatto la propria presenza sul territorio; che, oltre a vicinanza, ascolto e comprensione, significhi anche diffusione di cultura civica prima ancora che politica. Per dirla brutalmente, se si chiede ai passanti perché rifiutano qualsiasi volantino anche per la più nobile delle cause - ho fatto io stesso questa esperienza - nove su dieci, specie se di età inferiore ai cinquant'anni, esprimono indifferenza, se non disprezzo, per qualsiasi forma di manifestazione partitica, se non politica.
Sappiamo bene che senza partiti non vi può essere democrazia e che la politica, al suo meglio, costituisce un impegno nobile. Tuttavia, occorre comprendere che ogni sforzo per ricostruirli deve partire dalla pur amara constatazione di questa realtà. Il primo passo sarà quello di riconquistare la credibilità del venditore di arance, che ormai non frequenta più la Porta Due di Mirafiori, chiusa per sempre; come seppero fare i sindacati, in quell'epoca ormai lontana e come, con maggior fatica, cercano di fare a tutt'oggi.

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