VISIONI

Dialoghi interrotti sul filo delle false rappresentazioni

Israele al centro di un viaggio nelle fratture famigliari e collettive: il nuovo film di Michale Boganim
CRISTINA PICCINOITALIA/VENEZIA

Il desiderio che guida Mizrahim – Les oubliés de la terre promise, il nuovo bel film di Michale Boganim (Evento speciale nelle Giornate degli Autori) è quello di una trasmissione di memoria, da madre, la stessa regista, alla figlia esplicitata nelle inquadrature iniziali, e attraverso una prima persona che evita il sapore della madeleine per farsi lucida osservazione politica di una storia e di un paese. Siamo in Israele, laddove il padre della regista – che è l'altro interlocutore di questo dialogo seppure a distanza visto che è mancato anni fa – è arrivato nel 1950 dal Marocco: aveva lasciato tutto dietro di sé per l'utopia di quella «terra promessa» condivisa con tanti altri ebrei che dal Nordafrica e dal Medio oriente si erano spostati in Israele accogliendo il richiamo di un'impresa fondante e necessaria. La realtà che li aspettava era però molto diversa: le città come Gerusalemme e Tel Aviv non le vedevano neppure, venivano caricati sugli autobus e spediti nel mezzo del nulla: il deserto del Negev dove sorgevano i nuovi insediamenti del progetto di espansione di cui i Mizrahim, considerati cittadini «di serie b» in virtù delle loro origini, sarebbero stati gli abitanti.
E mentre gli Ashkenaziti dell'Europa (ma anche America e America latina) erano predestinati a essere l'élite politica, intellettuale, economica la loro sorte era divenire la classe media e il proletariato, per questo anche le scuole erano separate, i Mizrahim potevano frequentare quelle tecniche senza accesso all'università per essere meccanici, dattilografe e quant'altro.
NEL TEMPO le città periferiche proliferano, sono sempre gli arabi a doverle popolare, oggi anche gli ebrei dell'Africa, configurando così una società che a differenza della sua mitologia di equità e eguaglianza è invece fortemente discriminatoria e di classe a partire appunto dalle origini. La differenza riguarda i diritti e le possibilità, ancora adesso in qualche scuola ci sono le entrate separate per gli ebrei mediorientali o nordafricani e per gli altri. Scrive la regista nelle note al film: «Questo film è un viaggio molto personale lungo i confini di Israele lontano dai luoghi comuni. Ma è anche un viaggio a ritroso nel tempo, verso quegli anni in cui la separazione tra le città dello sviluppo e il centro ha creato una differenza profonda tra Mizrahim e Askenaziti».
Questa barriera aumenta negli anni, e con essa il malessere tra i palazzoni nel nulla che somigliano a quelli di ogni quartiere satellite delle grandi metropoli la cui forma architettonica dichiara il proprio progetto social manca tutto:le città sono racconti lontani come il mito che li ha portati lì.
È COSÌ che negli anni Settanta inizia la protesta: gruppi che si ispirano alle Black Panthers americane, le giovani generazioni più arrabbiate, che sentono di avere ereditato come una specie di fato ineluttabile il tradimento subito dai loro genitori rompono il silenzio, cercano una voce a chi è stato messo da parte e soprattutto vogliono gridare qualcosa che è considerato un tabù o un'invenzione. Tra loro c'è anche il padre della regista, ma la lotta è destinata alla sconfitta: la guerra ricrea l'unita del Paese, c'è un nemico esterno da combattere, il movimento pian piano si arresta.
E poi? La storia della famiglia Boganim cambia ancora, rimanendo di esilio e di spaesamento: da Israele si spostano in Francia, altre periferie, nuovi palazzi anonimi, tutto da ricominciare; per loro abituati al sole il grigio e il freddo, la laurea di ingegnere del padre non è riconosciuta, a scuola Michale che non parla bene il francese fatica trovare il suo posto da una parte e dall'altra.
Il dialogo ininterrotto con la figlia, bambina che l'accompagna nel lungo on the road, e che nei passaggi più narrativi è quasi il suo alter ego di quando era piccolina, permette alla regista di compiere un continuo movimento dentro il passato rendendolo presente, la storia è ripercorsa nei vissuti, tra i segni del paesaggio, con chi continua a esserne parte: è cambiato qualcosa in questi settant'anni? La realtà del presente dice di no, anzi un ragazzo rapper nella sua musica riversa la protesta, dà voce all'oppressione, al disagio; lui se ne è andato ma non ha dimenticato i giardinetti senza erba, l'orizzonte privo di apertura, la povertà, essere chiusi in quei ghetti senza che nessuno lo riconosca. Chi vive lì prova a sfuggire, ma non è semplice. Quasi tutti, anche i più giovani, continuano a essere messi da parte, a non poter scegliere un lavoro, lo studio, a sentire su di sé l'immagine che dicono i più anziani, chi è stato umiliato, costretto a mestieri che non riconoscevano titoli e esperienze.
QUALCUNO lavora per ricostruire la violenza, le donne anziane yemenite ricordano i bambini che gli hanno portato via nelle cliniche quando partorivano per farli adottare dalle famiglie ricche. A loro dicevano che erano morti o che non potevano vederli più. A ogni tappa un diverso frammento di una esperienza comune che nelle immagini pian piano si fa narrazione collettiva.
La scommessa della regista è quella appunto di dargli una parola con la quale ripercorre il tempo e l'attualità, ma soprattutto è di svelare un aspetto che in uno dei paesi più mediatizzati al mondo un rimane, almeno per chi è fuori, sui bordi: l'Israele che ci mostra è inedito, anche fisicamente, offuscato da quella del conflitto e della sua autorappresentazione che non prevede contraddizioni.
Il suo è un gesto forte, che sposta l'immaginario, e si fa critica dall'interno, su un sistema che già in sé contiene una violenza originaria, e gesto di un cinema che continua a interrogare il mondo e la propria materia.

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