COMMENTO

Perché non siamo andati oltre l’orientalismo

La ricaduta
PIER GIORGIO ARDENIUSA/NEW YORK

Vent’anni dopo quell’11 settembre - su cui il manifesto ha prodotto ieri un importante Speciale di approfondimento - che aveva segnato un punto di svolta, possiamo dire che, con il ritiro delle forze statunitensi e Nato dall’Afghanistan, si è simbolicamente registrata la fine del «secolo americano», ma anche della primazia «occidentale». Una superiorità che si era estesa anche alla stessa «lettura» della storia, la visione teleologica del progresso e della modernizzazione.
Quella sostenuta dal benessere portato dal capitalismo, e della democrazia liberale come il «meno peggiore dei sistemi di governo», rappresentanti l’apice dello sviluppo del pensiero «occidentale», il risultato di una concezione del mondo che avrebbe avuto quel destino in nuce, fin dalle sue origini.
La fine del secolo americano segna la demise ultima della narrazione della «fine della storia» invalsa dopo il 1989 e rappresenta l’evidenza plastica del tramonto dell’Occidente, la fine di un mondo che, tuttavia, non lascia intravedere fine. Perché non sappiamo vedere oltre e la nostra visione è centrata su se stessa. Non più superiore, né unica, ancorché globale - avendo permeato di sé l’intero mondo - la cultura «occidentale» si ritrova priva di una spiegazione della storia che, a ben vedere, va ben oltre le recenti vicende geo-politiche.
EDWARD SAID aveva avuto il merito di mettere in evidenza come il colonialismo fosse segnato nel profondo, fondato su un’idea dell’altro - «the West and the Rest» - che proprio perché non si conformava al modo in cui l’Occidente si era sviluppato - restando «indietro» - veniva necessariamente dominato. Ma era un’idea basata sulla rappresentazione di sé, discorsiva, à la Foucault, che prescindeva dal divenire della storia e dalle sue dinamiche economiche, sociali e politiche e che solo oggi ci rendiamo conto abbia solo in parte aiutato a capire ciò che stava succedendo nel vasto mondo. Il pensiero post-colonialista ha poi spiegato il nazionalismo delle ex-colonie «alla maniera occidentale» come risposta al dominio, finendo di non cogliere processi storici e culturali che avevano altre radici, ugualmente «profonde».
CIÒ È STATO drammaticamente vero per l’Oriente o, più precisamente, per il mondo arabo-islamico. Ma se ciò è successo è anche perché il «campo» politico-economico - per dirla alla Bourdieu - ha invaso quello culturale, troppo «debole», prevalendo su di esso.
Se già T.E. Lawrence, notando come gli inglesi «non capissero nulla del Medio Oriente», si era sfilato dopo il tradimento che vedeva nell’accordo Sykes-Picot sulla spartizione di quella terra che era stata promessa agli arabi, quella mancanza di comprensione è rimasta intoccata sulla questione palestinese, su quella ebreo-israeliana, fino all’intervento americano in Iraq. Per non parlare del più vasto mondo islamico, dall’Iran all’Afghanistan. Qui, siamo rimasti all’idea che ne avevamo ai tempi dell’«Uomo che volle farsi re» dell’inglese Rudyard Kipling. «Il fardello dell’uomo bianco». E anche la lezione francese - con la mai fino in fondo maturata questione algerina - non è servita a spostare i termini della questione (e gli americani ne sanno qualcosa, per come hanno affrontato alla fine il Vietnam peccando delle stesse cecità francesi).
OGGI CHE SI È affermata la world history - opposta alle storie nazionali e al loro intrecciarsi - non si può non notare come essa sia comunque centrata sull’Occidente. Sul piano politico, la crisi di un «ordine internazionale» è vista in termini del ruolo dell’Occidente, perché senza primazia dell’Occidente non si dà «ordine».
Non è questione meramente militare, né semplicemente politica o «politologica». È la nostra comprensione della storia così centrata sul suo modo di concepire il mondo che fallisce. Noi, in Occidente, avevamo bisogno di risposte alla crisi della modernità e dell’identità umanistica infranta dalla globalizzazione e dalla tecnologia e quelle che ci diamo vedono noi al centro. Ma dall’Iran all’Afghanistan al Medio Oriente abbiamo tralasciato di comprendere mondi che crescevano lungo altri percorsi. Li abbiamo spiegati solo in termini di integralismo, di nazionalismo, rispetto a noi, non nella loro autonomia politica, economica e sociale, nell’incompreso intreccio religioso-etnico e nazionale, dove i confini delle nazioni eravamo stati noi a disegnarli. Condizionati dall’idea dello «scontro delle civiltà» e della contrapposizione, della «fine della storia» perché la storia era divenuta una sola. La nostra.
DALLE INTERPRETAZIONI dello sviluppo delle civiltà - da Harari a Diamond a Acemoglu e Robinson - abbiamo assistito ad una narrazione che ha spostato il suo orizzonte ma non il suo baricentro. Esiste, sì, un altro pensiero, che può essere quello di un Pankaj Mishra o di altri, ma ancora fatica ad emergere un’altra narrazione del mondo, che ci aiuti a comprenderlo oltre il nostro tramonto. Schiacciati da questioni profane come la «guerra al terrore» o la «paura degli immigrati», condizionati da spiegazioni come quella della «rabbia islamica», increduli che il nostro bulimico divorare le risorse del mondo possa essere emulato anche se odiato, non capiamo nulla: perché il mondo islamico possa essere così «refrattario», quello cinese o indiano così «lontani», per non parlare del vasto e oscuro continente nero. E siamo soli nel mondo, quanto mai prima.
Con la domanda di sempre. «Dove andrai, che farai, cosa vedrai quando la tua notte sarà finita, quando la gente di questo pianeta ti caccerà da qui, ragazzo bianco?», cantava Paul Kantner con i suoi Jefferson Airplane nel 1973.

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