CULTURA

La retorica latina non è da tribunale

Intervista a Giusto Traina, docente di Storia romana alla Sorbona
VALENTINA PORCHEDDUITALIA

Dai programmi scolastici europei che vorrebbero eliminare le lingue antiche per dare più spazio alle discipline scientifiche e tecniche, alle università americane che «accusano» Omero di fomentare razzismo ed esclusione sociale, lo spauracchio della scomparsa degli studi classici è al centro di dibattiti riportati di continuo all’attualità. Ne abbiamo parlato con Giusto Traina, professore di Storia romana alla Sorbona di Parigi, autore - oltre che di numerose pubblicazioni accademiche - anche di alcuni saggi divulgativi (da ultimo La Storia speciale. Perché non possiamo fare a meno degli antichi Romani, Laterza, pp. 224, euro 16).
Le società contemporanee hanno ancora bisogno della cultura classica o l’insegnamento del latino e del greco appartiene a una «paideia» non più al passo con i tempi?
Qualche anno fa, al Teatro Carignano di Torino, un gruppo di intellettuali inscenò un processo al nostro glorioso liceo classico. Il «pubblico ministero», l’economista Andrea Ichino, prospettò un vero e proprio dilemma tragico: «dobbiamo scegliere se studiare l’aoristo passivo o i mitocondri. Ossia, se studiare la cultura greca all’origine della nostra civiltà europea oppure gli organismi nei quali si nasconde probabilmente l’origine della vita sul nostro pianeta». Non è difficile smontare questa retorica, anche perché propone una visione polverosa e inattuale, che del resto troviamo già nel Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert: «Antichità e tutto quel che la riguarda: banale, fastidioso».
Forse, però, anche insistere sulle radici esclusivamente greche e romane della civiltà occidentale sta diventando un refrain banale e fastidioso.
Sono d’accordo. Non possiamo continuare a considerare i Greci e i Romani, in nessun tipo di scuola, come gli unici punti di riferimento della nostra civiltà. Al contrario, la stampa italiana ed europea ha dato ampio spazio alle iniziative di alcuni college americani che per ragioni essenzialmente economiche hanno eliminato o progettano di eliminare gli studi classici, magari utilizzando come cavallo di Troia l’argomento del politicamente corretto. Sarebbe forse opportuno guardare anche agli aspetti positivi: ad esempio l’Università di Harvard, che vanta una grande tradizione di Classics, ha recentemente bandito un posto di Storia antica che tra i requisiti addizionali prevede «una visione inclusiva per lo studio del mondo antico».
A Princeton, invece, hanno deciso di sopprimere l’obbligatorietà del greco e del latino in quanto considerate lingue feticcio dell’ideologia Wasp (White Anglo-Saxon Protestant, «ndr»), dunque rappresentative del potere egemone.
In realtà, nessuno impedisce a uno studente di una prestigiosa università americana di specializzarsi in retorica latina o metrica greca. Mi preoccupa di più il tradizionalismo dei nostri atenei, dove - a parte qualche felice eccezione - l’Egittologia, la Semitistica o l’Iranistica restano estranee ai percorsi di antichistica, che non a caso mantengono il nome di Lettere classiche. Eppure fu proprio un filologo classico, Giorgio Pasquali, ad affermare che «non esistono discipline severamente delimitate (…) ma solo problemi che devono essere spesso affrontati contemporaneamente con metodi desunti dalle più varie discipline». Parole al vento, se pensiamo che insigni filologi, per combattere la sopravvivenza degli studi classici, propongono varie panacee (più che altro dei placebo) senza chiamare direttamente in causa né gli storici né gli archeologi. Insomma, a differenza della «caccia allo schiavista» ingaggiata da Princeton che è un falso problema, l’eccesso di specializzazione è una questione seria.
Cinema e fumetti contribuiscono a rendere «pop» la cultura classica. Non c’è, però, il rischio che essa venga occasionalmente piegata alle esigenze della finzione o dell’attualità?
Prendiamo i personaggi della mitologia classica. Alcuni, come l’Antigone di Sofocle, vivono di vita propria. Lacan la vedeva come un’«eroina dal puro desiderio», qualsiasi cosa significhi, mentre la classicista americana Helen Morales, nel suo recentissimo saggio Antigone Rising: The Subversive Power of the Ancient Myths (Bold Type Books, New York 2020), si è spinta a paragonarla a Greta Thunberg, per la sua capacità di trasformare una patologia in qualcosa di positivo. Non è l’unica affermazione sorprendente del libro, che ha comunque il pregio di farci scoprire personaggi singolari, come l’anonima donna messicana della violentissima Ciudad Juárez, funestata da numerosi casi di femminicidio, che nel 2013 uccise due conducenti di autobus e rivendicò i suoi delitti firmandosi «Diana la cacciatrice di autisti».
L’archeologia e la storia antica impazzano sui social network, che le rendono talvolta più familiari e godibili. Nondimeno, accade spesso che proprio sul web tali discipline vengano banalizzate o mistificate (si pensi al fenomeno della fantarcheologia). Quale strada dovrebbero seguire antichisti e comunicatori per non alimentare una divulgazione mediocre e persino dannosa?
Mi permetta un paragone politicamente scorretto. Ricorda la copertina del fumettista Cabu per il numero di Charlie Hebdo che aveva pubblicato le caricature del Profeta, diffuse dal quotidiano danese Jyllands-Posten? Un barbuto e inturbantato Maometto si crucciava lamentandosi: «È dura essere amati da degli imbecilli». Sembrerà un confronto eccessivo, anche perché, qualche anno dopo, Cabu e i suoi colleghi la pagarono cara; ma non posso fare a meno di immaginarmi il Vecchio Giulio, il Cesare di Astérix, mentre si riferisce con le stesse parole a quei semplici di spirito che sfogano sui social la loro nostalgia dell’imperium Romanum in un tripudio di aquile, corazze e buccine.
Il problema della comunicazione è anche un problema di lingua o di «antilingua», come affermava Calvino.
Calvino si riferiva al burocratese ma è vero che anche certa prosa accademica tediosa ed «esoterica», tuttora trasmessa dai maestri agli allievi, può essere definita «antilingua». In una celebre recensione a Fergus Millar, autore di un monumentale trattato sulla funzione politica e sociale degli imperatori romani, il suo rivale Keith Hopkins (Journal of Roman Studies, 68, 1978) criticò senza mezzi termini lo stile del libro, denunciando la «patologia di una scuola masochista che sostiene che un buon lavoro accademico è inevitabilmente noioso, mentre solo i divulgatori cercano di essere interessanti, sacrificando in tal modo la ‘verità’». Per fortuna, anche in Italia, le nuove generazioni cominciano a cimentarsi nell’arduo esercizio di scrivere libri quanto meno leggibili.
Carlo Calenda, candidato sindaco nella capitale, ha proposto di istituire un nuovo museo che racconti la storia di Roma e che raccolga i reperti più emblematici esposti nei differenti musei della capitale. Un’idea che appare per molti versi rétro e inadeguata. Cosa ne pensa?
Condivido le perplessità sul «Museo unico romano». Tuttavia, da storico, non posso che accogliere con interesse l’idea di un «percorso museale completo, moderno e fruibile che diventi la destinazione naturale di chi vuole conoscere la storia romana», caldeggiato dall’europarlamentare sui social. Quanto all’allestimento, ho letto di una sala ciceroniana con il busto dei Capitolini (prelevato per l’occasione dalla Sala dei filosofi) che «accompagni il quadro di Maccari mentre una voce declama le Catilinarie». Il personaggio qui immaginato, probabile frutto di reminiscenze liceali, è l’eroe borghese del tardo Ottocento, quando Cesare Maccari eseguì il celebre Cicerone denuncia Catilina. Quest’opera, in realtà, è un affresco di grandi dimensioni ed è bene che resti a Palazzo Madama. Gli storici sono i grandi assenti degli allestimenti museali e di gran parte delle mostre: non sarebbe il caso di cominciare a consultarci?

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