CULTURA

Per una poesia delle relazioni

Intervista con Jacopo Crivelli Visconti, curatore della trentaquattresima edizione della mostra internazionale
ARIANNA DI GENOVA BRASILE/SAN PAoLO

La 34a Biennale di são Paulo, dopo una serie di «tappe» di avvicinamento e slittamenti dovuti alla emergenza sanitaria, si aprirà (con non poco coraggio) in presenza il 4 settembre, all’insegna di un verso che - alla luce della pandemia, peraltro di là da venire quando si è creata l’architettura concettuale di questa mostra - suona oggi profetico, calamitando a sé tutte le speranze: è quel Faz escuro mas eu canto (Si fa notte ma io canto) del poeta Thiago de Mello, nato nel 1926 nello stato d’Amazzonia, che dall’alto dei suoi 95 anni non ha mai smesso di celebrare il suo popolo.
Curata da Jacopo Crivelli Visconti, nato in Italia e residente in Brasile, con la collaborazione di un team composto da Carla Zaccagnini, Francesco Stocchi, Ruth Estévez e Paulo Miyada, la mostra si è snodata lungo quasi due anni con diverse partnership istituzionali e allargandosi oltre confine, accogliendo nel 2021 anche il settantesimo anniversario della Fundação Bienal de são Paulo. Come faro intellettuale, la rassegna ha scelto Édouard Glissant, cui affida la possibilità di vivere un futuro alternativo. All’arte, come sostiene Crivelli Visconti, il compito di aiutare «a capire cosa sta succedendo. Non in modo letterale, ma poetico ed epifanico».
La Biennale di são Paulo si apre nel bel mezzo degli sconvolgimenti dovuti a una pandemia e in un Brasile socialmente e politicamente in affanno...
Quando abbiamo dato il titolo alla mostra sulla scia del verso del poeta Thiago de Mello eravamo concentrati su altre problematiche. La pandemia non si era ancora affacciata nelle nostre vite. Le sue parole risuonavano già chiarissime fin dal loro apparire, ma certamente adesso inducono a un’altra lettura. In realtà, questa idea di poter accedere a letture diverse è stato il punto di partenza di tutto il progetto della Biennale. Prima che si aprisse la rassegna centrale, avevamo proposto mostre individuali e una serie di collaborazioni con le istituzioni della città: ognuna avrebbe realizzato allo stesso tempo una personale di un artista che poi sarebbe stato presente in Biennale. Volevamo che il pubblico potesse vedere le opere in maniera del tutto naturale e in contesti differenti. Era questa l’architettura curatoriale su cui si fondava l’impalcatura della manifestazione: insistere sul contesto, mostrare la sua importanza. Quando tutto intorno a noi è cambiato a causa dell’emergenza sanitaria, questa idea si è rafforzata, è divenuta parte della quotidianità, non solo una strategia della nostra curatela. Oltretutto, i tempi si sono allungati e abbiamo potuto offrire una programmazione online più ricca e articolata, preparandola meglio.
Sin dall’inizio, scrivevamo lettere personali che riflettevano (non in maniera diretta) il lavoro di organizzazione, ma dando sensazioni e indicando le direzioni che stavamo prendendo. Quelle lettere sono diventate sempre più numerose. E si è aggiunto un programma di visite negli atelier, seminari, conferenze, workshop. Comunque, la Biennale aprirà in presenza con più della metà degli artisti che raggiungeranno il Brasile per l’inaugurazione.
Un altro nume tutelare è dichiaratamente Édouard Glissant con la sua poetica della relazione e della «opacità». Un modo assai differente di intenderla rispetto a ciò a cui siamo abituati...
Sia la relazione sia l’opacità, secondo il valore attribuitogli da Glissant, sono i due concetti cardinali nella costruzione della mostra. E poi c’è il contributo sostanzioso di artisti indigeni e della diaspora africana che spontaneamente sono «in relazione», invitandoci a pensare secondo altre prospettive. Fra gli ospiti, c’è anche il teorico e filmmaker del Mali Manthia Diawana: è stato un amico e uno studioso di Glissant e per noi un interlocutore importante riguardo l’ossatura della Biennale. Glissant con la sua «opacità» sostiene che non è necessario capire. Malgrado la non comprensione dell’altro, si possono creare relazioni. Nel contesto di polarizzazione che ci troviamo a vivere è una lezione cruciale ed è un buon modo per tornare a rileggerlo dopo che per lungo tempo è stato visto come un intellettuale troppo pacificato con la storia. Diawara sta preparando un’installazione bellissima: è un parlamento di grandi pensatori, neri e non solo, con cui ha dialogato negli anni - interviste, conversazioni, tavole rotonde. Ci sono due minuti in cui Glissant parla della relazione e poi c’è Soyinka, si spazia e arriva anche Jean Rouch. Un caleidoscopio di menti.
La natura è un tema molto visitato, soprattutto dagli artisti indigeni. Era una direzione voluta?
La maggior parte dei temi che il pubblico riconoscerà all’interno della Biennale sono nati dalle opere stesse. Abbiamo iniziato espandendo la mostra nel tempo e spazio, portando lavori e artisti che ognuno di noi riteneva avesse senso far vedere in Brasile. Alla fine, alcuni percorsi si sono costruiti da soli, con attrazioni naturali fra riflessioni e idee. Il tema ecologico è parte integrante del nucleo che abbiamo chiamato della «giungla», della «foresta». Un luogo in cui ci si sente minacciati e protetti contemporaneamente. Glissant aveva la capacità di sovvertire la lettura delle parole: trasparenza e opacità sono rovesciate nel loro significato. Così la giungla, prigione da cui non puoi muoverti o scappare è anche luogo per una libertà che in altri contesti non avresti mai. L’arte indigena contemporanea (non esclusivamente brasiliana), fortemente rappresentata in questa Biennale, abbraccia una visione del mondo in cui gli umani sono parte di una linea. Un altro autore centrale nel nostro itinerario è Edoardo Viveiros de Castro con il suo perspectivismo ameríndio. Ci interessava che quelle tematiche non fossero solo speculazioni accademiche e filosofiche. Sono il perno nevralgico del lavoro di molti artisti, intrecciandosi alla questione della sopravvivenza.
Che radicamento ha la Biennale nel contesto brasiliano e in una città come são Paulo?
È una mostra speciale per la sua portata internazionale. Tradizionalmente, trascende il contesto di arte contemporanea per trasformarsi in un evento culturale su grande scala. Diventa quasi sempre palcoscenico per manifestazioni politiche e di altro tipo, che noi non possiamo né vogliamo controllare. È un momento rilevante nella vita pubblica brasiliana.
Marinella Senatore è una delle artiste italiane invitate. Sta lavorando, come sua abitudine, con qualche comunità locale?
Sì, ha cominciato a interagire già da tempo con la comunità della Cidade Tiradentes. Una comunità cresciuta rapidamente negli anni 80: ora lì vivono trecentomila persone, spesso in condizioni di disagio. Non potendo fare attività con assembramenti a causa del Covid, ha organizzato workshop online tenuti da un gruppo inglese di parkour, con tutorial unicamente destinati agli abitanti della Cidade Tiradentes. Intanto, sta preparando anche una delle sue luminarie.
Alla fine, sono molte le opere site specific per la Biennale. Alfred Jaar, per esempio, ha riadattato per il Brasile, con i colori della sua bandiera per criticare i vari nazionalismi, quella sua installazione con la frase di Antonio Gramsci che avevamo visto al Maxxi. In fondo, non ha perso attualità: «E in questo chiaroscuro nascono i mostri».

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