COMMENTO

Esportazione armata della democrazia, la Waterloo di Biden

Venti anni di guerra
GUIDO MOLTEDOAfghanistan/usa

Tra i 238 e le 241 mila morti, di cui 71 mila civili. È la guerra dei vent’anni che si è combattuta in Afghanistan ma anche, vale la pena ricordarlo, nelle regioni confinanti del vicino Pakistan. Costata agli Stati uniti 2.261 militari caduti, a cui vanno aggiunti i 3.936 contractor americani uccisi in combattimento, i mercenari, di cui poco si parla ma che, anche in questo conflitto, hanno avuto un ruolo cruciale.
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--- II In più i caduti della Nato. Una guerra per cui sono stati spesi 2.261 miliardi di dollari. Immaginare altri dieci, vent’anni così, per poi arrivare allo stesso esito, alla stessa situazione che vive l’Afghanistan in queste ore e giorni, non avrebbe alcun senso e certo non avverrà sotto questa presidenza, ha detto chiaramente il commander-in-chief dell’ultima, umiliante Waterloo americana. Un prezzo politico alto, paga Joe Biden, l’ultimo dei quattro presidenti implicati nel conflitto, per i sei mesi finali degli oltre duecento dell’impresa afghana.
LE IMMAGINI della vittoria talebana, del caos, del panico, del fuggi fuggi, della disperazione hanno avuto la meglio sulla sostanza di quanto è accaduto e sta ancora accadendo e che Biden ha vanamente cercato di incorniciare dentro una visione logica, pragmatica e, soprattutto, in linea con gli interessi americani, buttando al macero l’ottusa retorica della democrazia formato export di chi iniziò la guerra. Il sussulto che suscitano le scene da Kabul non deve meravigliare nella nostra età ormai matura della comunicazione globale e quindi, delle emozioni globali. Così come non meraviglierà la sua rapida scomparsa dal circuito mediatico perché più di tanto, anche le peggiori tragedie, nulla possono fare contro la tirannia del ciclo breve, sempre più breve della notizia.
Certo, è stato stolto da parte della Casa bianca non predisporre un piano di uscita con le sembianze di un ritiro ordinato, ma davvero sarebbe stato possibile attuarlo, come pontificano i tanti generali in poltrona che affollano tv, giornali e social? Qualcuno ricorda un ritiro ordinato da un conflitto, da una guerra palesemente ingiusta, o da un’invasione neocoloniale? Da Saigon? Da Teheran? Da Beirut? Da Mogadiscio? Da Baghdad? E dove la cessazione di un conflitto è stata apparentemente «ordinata», quel che è seguito non lo è stato altrettanto, come dimostra la Bosnia, per non andare tanto lontano.
Biden, a modo suo, ha avuto quello scatto che neppure il suo ex numero uno aveva avuto, contribuendo a lasciare aperto il conflitto afghano per darlo in eredità ai suoi successori. C’è da chiedersi se e quanto la decisione di Biden sia davvero frutto di un calcolo strategico e costituisca parte di una «dottrina» di lungo periodo. Una «dottrina» nella quale l’esplicitazione della priorità su tutto dell'interesse nazionale americano è chiara, dichiarata, senza inutili e offensivi orpelli ideologici, tipo esportazione della democrazia e dei valori occidentali. Una «dottrina» eminentemente isolazionista non ne ha più bisogno e, tolto tutto ciò che c’era di odioso in Trump, è sulla sua scia che si muove Biden, e con lui i poteri che contano a Washington e nel capitalismo americano.
BIDEN DOVRÀ innanzitutto spiegare la sua «dottrina» - se tale è e non dilettantistica improvvisazione - agli alleati europei, ancora fermi, per convenienza, per ignavia, per subalternità, a un credo che, con i Bush, aveva rinnovato in chiave globale e alternativa all’Onu un’alleanza nata e consolidata per «combattere il comunismo», per poi dignitosamente andare in pensione con la sua fine, e che avrebbe dovuto rigorosamente agire per statuto entro il perimetro europeo. Il collasso afghano mette a nudo questa costruzione ideologica, edificata a Washington ma con il contributo convinto degli europei, che cara ci è costata, anche all'Italia, in termini di vite umane e di energie vitali regalate alla morte. La nervosa reazione europea alla scelta di Biden supera largamente la stizza verso le intemperanze di Trump, compreso l’esibito disprezzo verso la Nato, col retropensiero che il suo successore avrebbe rimesso le cose a loro posto. Essa è rivelatrice soprattutto di un vuoto di pensiero europeo sul mondo d’oggi e su come esserne parte e averne parte.
LA «DOTTRINA» BIDEN, e con essa quel che sarà della politica estera europea, è ora alla prova di due dossier non meno rilevanti di quello afghano, quello iraniano e quello cubano. Con l’Afghanistan, Iran e Cuba erano in cima alle priorità dell’amministrazione Obama e nel programma elettorale di Biden. Nell’immediato, come scrive lucidamente sul manifesto Luciana Castellina, è «urgente dialogare con il governo di questo paese, che non è nostro amico, per facilitare il passaggio di quella frontiera». Tanto più che gli hazara, la minoranza sciita dell’Afghanistan è ancor più in difficoltà oggi, in balia di una maggioranza estremistica che, tanto per dare un segnale, ha abbattuto due giorni fa la statua di Abdul Ali Mazari, martire della lotta di questo fiero popolo sciita.
Con Cuba, un minimo di coerenza e di saggezza suggerisce di abbandonare definitivamente l’approccio ideologico. L’esasperazione nell’isola è da tempo ai limiti di guardia. Proseguire lungo la via delle sanzioni, comprese le ultime aggiunte da Trump, non porterà che a un conflitto, anche sanguinoso, questo a poche miglia dagli Stati Uniti. È questo che vuole l’amministrazione Biden, dopo la Waterloo afghana?

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