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I riformisti fasulli nella cruna della questione fiscale

Sinistra
PAOLO FAVILLIITALIA

«Il riformismo ha presidiato politicamente e culturalmente la zona rossa» di Genova vent’anni fa, e per questo ha un «conto apertissimo» con quella vicenda e i suoi più generali e profondi significati. Un’affermazione di Nichi Vendola (Huffington post, 20 luglio) del tutto condivisibile.
L’uso del termine «riformismo», sia pure in parte corretto da una precisazione («cosiddetto»), apre, invece, ad un’area di indeterminatezza che rischia di non farci comprendere una realtà sedimentata da un radicamento di lungo periodo. È tale realtà che non permette a quei «rifomisti», né oggi né in futuro, di chiudere un conto che non avvertono come tale. Figuriamoci averne «rimorso».
Nel corso di un articolo in cui, peraltro, i caratteri veri di quel «riformismo» vengono chiaramente delineati, Vendola continua ad usare espressioni come «sinistra riformista» e suoi sinonimi. Adopera, cioè, una terminologia nata ed utilizzata in un contesto storico determinato; fuorviante in un contesto storico del tutto diverso.
La questione non riguarda una disputa terminologica accademica. Va da sé che per gli studiosi la propedeutica dei concetti è condizione imprescindibile di qualsiasi costruzione discorsiva. «Riformismo» è una parola-concetto, cioè funge da categoria analitica. Se oggi il termine viene costantemente usato per definire identità e pratiche politiche, anche i politici della sinistra devono fare propedeutica dei concetti per vedere di più, senza mistificazioni ed illusioni, nell’ambiente storico in cui si trovano ad operare. Un ambiente storico dove non hanno più senso conoscitivo, ma solo strumentale, dicotomie della storia del movimento operaio e socialista: riformismo/rivoluzionarismo, riformismo/massimalismo, riformismo/comunismo.
È del tutto logico che i «cosiddetti» si autodefiniscano «riformisti». In tal modo essi possono alludere ad una qualche continuità con un’importante componente di quella storia. Perfino Renzi usa l’espressione «noi riformisti». Ma, per gli uni e per gli altri, si tratta, appunto, di una totale mistificazione che non regge ad alcun meccanismo di prova. Gli studi seri a proposito e le analisi politiche basate sull’individuazione delle logiche del mutamento strutturale dei rapporti sociali, non sono controvertibili nei loro aspetti fondamentali.
La maniera di porsi di fronte alla questione fiscale, ad esempio. E indicatore essenziale del carattere socialista del riformismo. La questione fiscale, infatti, è stata, ed è, un vero e proprio sismografo dei rapporti di forza tra le classi.
I riformismi italiani, in un’articolazione programmatica delle riforme soggetta, naturalmente, alle variazioni imposte dalla contingenza, hanno sempre usato l’espressione «grande riforma» in relazione alla questione fiscale. Il «problema più urgente», sul quale i riformisti dovevano «mettersi in campagna (…) raccogliere tutte le forze disponibili, cercare il collegamento con le masse proletarie»; così lo indicava Turati nel periodo i cui in cui i riformisti detenevano una sostanziale egemonia nel partito socialista.
Gli obbiettivi di quella «grande riforma», pur nella differenza delle circostanze, sono gli stessi che una forza socialista ha di fronte oggi: lotta per un sistema fiscale improntato ad una forte progressività, nuove aliquote sui redditi più alti e sui redditi da capitale, imposta sui grandi patrimoni. Una prospettiva che accomuna, nello stesso sentimento di orrore, Draghi, il custode dell’ordine neoliberista, e Letta, il riformista «nuovo».
Quando un dirigente socialista di primo piano caldeggiò una riforma fiscale che doveva limitarsi a «ritoccare» il sistema allora vigente, piuttosto che «creare un assetto profondamente diverso» (I. Bonomi, «Avanti!», 31 gennaio 1911), furono proprio Kuliscioff e Turati a rilevarne l’estraneità al riformismo socialista, affermando che il Bonomi considerava «i fenomeni economici dal punto di vista dell’economia puramente borghese» (Lettera di Kuliscioff a Turati del 1febbraio 1911)
Solo la sinistra, attualmente senza nessuna possibilità di incidere sui processi in corso, potrebbe riaprire il discorso per «un assetto profondamente diverso» del sistema fiscale. Capace di rispondere non solo a criteri di giustizia tributaria, ma anche di incrementare, tramite meccanismi di sottrazione ed addizione, politiche economiche «profondamente diverse».
E proprio la costruzione di questa sinistra deve diventare la priorità di chi condivide il significato della critica di Turati e Kuliscioff a Bonomi. Spero che Vendola sia d’accordo su questa priorità.

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