VISIONI

«A Classic Horror Story», metafisica del frammento celata nelle pieghe del genere

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LUIGI ABIUSIITALIA

Spesso è proprio dal «genere» che passa la legittimazione del segno, che si tratti di letteratura o cinema, o musica addirittura; quella tensione non solo verso la narrazione, ma verso le ragioni stesse del narrare, mostrare: il racconto dei motivi, dei presupposti del racconto, dei meccanismi di formazione, deformazione delle immagini (e il genere non sta forse tutto nella deformazione del tratto, del sembiante, che sia comico o terrifico?), che inscrivono, nel lasso di tempo definito da un bagliore, da un fulgere e consumarsi di materia, di luce, un che di senso. Il lasso, l'intervallo, il tempo destinato a interrompersi improvvisamente: è in questa metrica del frammento – che mostra il sorgere, anzi l'insorgere ghignante, sguardo in deliquio, in delirio; l'irrompere e interrompersi delle immagini, proprio nella loro meccanica, nella meccanica ronzante della macchina da presa –, è qui che si svolge lo sbaraglio finale, anzi lo sbaraglio dei finali (uno dopo l'altro, uno dentro l'altro, dentro schermi di schermi) di A Classic Horror Story, film anfibio, polimorfo, più consapevole di quanto voglia mostrare, cioè nonostante qualche forzatura, qualche forzosa rispondenza a determinati cliché (ad esempio il bagaglio di frustrazioni e ferite che ogni personaggio si porta appresso e viene fuori nel film un po' artatamente) che però possono essere interpretati come il frutto della visione, dell'ingenua filosofia di vita di Elisa, la protagonista, una splendida Matilda Lutz che tra l'altro si ricongiunge con Ginevra Francesconi, uno dei volti più magnetici visti di recente al cinema, la Denise di The Nest, il primo film di Roberto De Feo, che mostra così un certo talento per le fisionomiche.
Ora De Feo condivide la regia con Paolo Strippoli riportando un riconoscimento importante: il premio per la miglior regia al Festival di Taormina, punto di partenza per la distribuzione capillare su Netflix. Si tratta di un film di artigianato – almeno all'inizio –, che mostra compiaciuto, incarnato nel personaggio di Fabrizio, un certo gusto cialtronesco nella manipolazione dei materiali tipici, e che però poi comincia a fare sul serio: a poco a poco rivela la sua natura metafisica, nel senso che – messo da parte quel materiale di risulta – tende a prelevare la sostanza del proprio essere da se stesso, dal suo interno, dai meandri chiaroscurali e scarniti del suo dispiegarsi, registrarsi, per frammenti (dal processo di edificazione delle immagini piuttosto che dal repertorio iconografico), andando al di là della citazione, che prima era stata così esibita e sfrontata da sembrare uno strumento per disinnescare da subito le formule critiche trite del tipo «è derivativo». In effetti assodata, anzi dichiarata la derivazione (da Raimi a Wes Craven, a Rob Zombie, ecc.) i due registi indicano la via della deviazione e della deriva, senza che ci sia un approdo certo per lo sguardo, ma un galleggiamento nel mare incerto dell'immaginazione, di una realtà tutta cinematografica che è più cose allo stesso tempo. È una nuova fenomenologia della mafia, dedita agli snuff-movies, per cui tutto il soprannaturale si scioglie, sembra sciogliersi a un tratto nel naturale (in un processo inverso a quello di The Nest); si svela nello scorcio naturale di una Calabria boschiva che sfocia poi a una spiaggia (ma in realtà gran parte del film è girato in Puglia, nella Foresta Umbra), secondo un automatismo che è proprio di Shyamalan: dalla parapsicologia alla psicologia, fino al folclore così topico, fertile per l'economia dell'horror contemporaneo, come dimostra Midsommar di Ari Aster.
A Classic Horror Story è anche e soprattutto il deliquio e il sogno di salvezza (mentre risuona Il cielo in una stanza) di una ragazza che ha perso i sensi (forse anche la sua gravidanza è parte di questo sogno) mentre una figura mascherata, arborescente, le frantuma i piedi con un enorme martello di legno. Questo è il prologo fulmineo da cui il film si biforca (tra realismo e fantastico, referto paradossale e sogno) sotto l'egida di una fosforescenza in profondo rosso che s'accende quando sta per giungere l'orrore, e di una testa di cervo appesa alla parete (come già in The Nest: testa di cervo e profondo rosso), specie di guardiano del fenomeno, del visibile, che vigili, tetragono, sulla qualità del visibile e sull'inviolabilità di quella zona protetta, fuori dal mondo, come un'Hobb's End o una Castle Rock: la Villa dei Laghi trascesa ora nel bosco calabrese (che gira su se stesso), spazio senza tempo, cinema, in cui imperano Osso, Mastrosso e Carcagnosso. È tutta la mitologia arborea, boschiva, e l'antropologia calabrese – nel sincretismo dei propri spazi, tra natura rigogliosa, turismo, vertenze sociali, zone di trepido, inquietante abbandono – da cui si dispiega, si distilla, rompendo gli argini della mimesi, l'ombra, il buio, l'orrore sospeso, fluttuante. 

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