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Le pitture di Fabullo alla Domus Aurea

Divano
ALBERTO OLIVETTIITALIA/ROMA

Lassù, sulle alte pareti di intonaci bianchi, puoi seguire il sovrapporsi dei livelli negli altrettanti piani che si affacciano sul grande criptoportico della Domus Aurea. Palchi che si aprono mostrando prospettive di vani a moltiplicare ambienti retrostanti, spazi che, come in un gioco di specchi, intuisci l’uno collegato all’altro da una successione di regolari anditi e saloni. Se la linea che traccia lo spigolo d’una parete ti nasconde la vista intera d’una stanza, ne puoi tuttavia osservare un segmento della decorazione o scoprire in tralice la sagoma d’un tuffatore in volo stagliata al centro d’un muro divisorio, tra una cameretta e una sala.
Il fantastico palazzo è costruzione di stipiti, balaustre e finestre dipinte sullo scialbo, geometrici equilibri di linee verticali e orizzontali eseguite, dice la tradizione dal pittore Fabullo. Balconi che puoi raggiungere con lo sguardo, illuminati d’una bianchezza senz’ombre. Antenne che sostengono festoni leggeri nell’aria immobile dove un genio alato si libra. Al sommo di bacchette verdeggiano mazzetti d’erbe forse raccolte per preparare magiche pozioni. Pende da un soffitto un canestro sospeso a nastri annodati da ricchi fiocchi. Sul mancorrente d’una sottile ringhiera un’elegante palomba dalle piume cobalto par godere di quelle aeree distanze misurate a costruire ambienti secondo proporzioni e rispecchi. E tragitti segnati rispettando le regole d’un gioco segreto, indicando postazioni fisse: qui la presenza di un tritone dalla coda attorcigliata; là un adolescente nudo dal corpo flessuoso; giù una tavoletta incorniciata dove è dipinto un prosciutto e una costata di manzo.
La gran fabbrica affidata da Nerone agli architetti Severo e Celere, interrata da quasi quattordici secoli, all’epoca di Alessandro VI, tra Quattro e Cinquecento, se ne scoprirono alcune rovine decorate. Penso Giovanni da Udine e Raffaello e Giulio Romano davanti alle prospettive e alle figure di Fabullo. E ai loro entusiasmi per quelle pareti dipinte che ai loro occhi e alle loro menti restituivano intatta la luce e viva l’invenzione della pittura antica. E penso alla sensazione provata, allora, d’un retaggio che, dalle distruzioni e dai ruderi, balzava vivo e presente quale un programma da realizzare.
Raffaello, incaricato dal papa di stendere una carta degli edifici in rovina della Roma imperiale, dichiara a Leone X che il compito ricevuto «in un punto mi dà grandissimo piacere, per la cognizione di tanto excellente cosa, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavero di quest’alma nobile cittate, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato». Di Roma, la Domus Aurea offriva ora agli artisti non più il senso della grandezza scomparsa e irripetibile, ma lo spirito vivo e non solo imitativo d’un modello così altisonante e universale. In quelle grotte era avvenuto un prodigio: si era custodito, come in uno scrigno il principio che sancisce la libertà dell’arte. Nei Diálogos de Roma Francisco de Holanda riporta un giudizio di Michelangelo che val la pena di richiamare al proposito. Riguardo alle grottesche si chiede al Buonarroti perché un pittore sia autorizzato a dipingere «quello che più gli piace e che non si è mai visto in questo mondo». Michelangelo richiama il celebre passo dell’Ars poetica di Orazio, là dove si legge che poeti e pittori «hanno sempre avuto un eguale diritto di osare qualsiasi cosa», e quindi argomenta: «i pittori hanno diritto di osare tutto ciò che gli garba. E questo retto giudizio e questo potere lo hanno sempre avuto». Così nelle grottesche l’artista se muta «in delfino la metà inferiore di un grifone o di un cervo, o quella superiore nella figura che più si adatta, mettendo ali al posto di braccia, e tagliando le zampe anteriori se stanno meglio le ali, l’arto che egli muta, se sarà d’un leone, di un cavallo o di un uccello, dovrà essere perfetto, proprio della specie a cui appartiene. Questo, anche se sembra falso, non si può definire che ben inventato e prodigioso». Un riposo dei sensi, aggiunge, ché i mortali «talora desiderano contemplare ciò che non avevano mai visto e che sembra non possa esistere».

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