CULTURA

Mariangela Gualtieri, l’espansione amorosa del mondo

Intervista con la poeta sabato al Teatro Carignano per il reading «Nostalgia delle cose impossibili»
ALESSANDRA PIGLIARUITALIA/torino

Il desiderio nomina il nostro stare nel mondo, sostanziandolo. Essendo parola in stretto contatto con la materialità delle vite, oltre che con l’oralità, è prossima anche alla poesia. Messo a tema in particolare dalle scritture delle donne e dal femminismo, il suo significato è sovente riferito al luogo della «mancanza». Meglio sarebbe augurarsi di fare l’esperienza potente e somma del desiderare, non accade di necessità in ogni esistenza e può orientare quanto pieno incarnato ci sia nel convocarlo e covarlo.
«Desideranti» è il tema con cui si apre oggi la nuova edizione di Torino Spiritualità, indovinando ciò che più occorrerebbe al presente, dopo oltre un anno di totale spossessamento, fare ritorno al desiderio diviene quasi una pratica sovversiva. «Siamo noi i desideranti, noi viventi», suggerisce Mariangela Gualtieri: ospite sabato al Teatro Carignano (ore 15. 30) farà una lettura pensata per il Festival torinese. «Il desiderio - prosegue la poeta - è energia che ci sostenta e ci muove in una direzione o in un’altra, senza mai trovare compimento».
Il reading di sabato è intitolato «Nostalgia delle cose impossibili». Quali sono?
È un verso di Beppe Salvia, poeta che amo. Non ho mai pensato a un elenco preciso di cose, quanto piuttosto a una scia di entità grandiose e lontanissime che dobbiamo avere abitato, delle quali resta in noi una nostalgia imprecisata e dalle quali a volte sembra di essere precipitati giù. Del resto la nostalgia, come desiderio del ritorno, resta in poesia un movimento radicato e sempre presente.
Per introdurre il suo incontro scrive che ci sono desideri che sono quasi nati con lei e sempre sono rimasti con una così forte intensità, come «massa di energia ardente». Si tratta di una risorsa antica e inaddomesticata cui attingere?
Sì, non si può addomesticare perché non pare di questo mondo e dunque non ha casa qui. Innato è qualcosa che pare avere origine altrove, appartenente ad un altrove.
Forse questi desideri, questa massa di energia ardente, è ciò che determina il nostro essere fatti così, il nostro cesello, il nostro destino, la legge di ognuno di noi e nel migliore dei casi la nostra vocazione, come punto in cui il desiderio diviene un ordine che non si discute. O, potremmo dire, connota il nostro daimon.
Nei suoi versi aleggiano spesso i segni del desiderio, vuoti, mancanze, commozioni, visioni, pienezze; poi c’è un luogo simbolico raro, soprattutto in questo tempo miseramente autocentrato: il desiderio di gratitudine.
Quando ho cominciato a scrivere la lunga lista di grazie ispirata dalla Poesia dei doni di Borges, ho provato grande leggerezza e anche l’impressione di un compimento, come se tutto fosse in attesa di un nostro grazie, la terra, l’acqua, gli animali, l’erba. Penso che la gratitudine sia alla base di qualunque ecologia o ecosofia e che da essa si generi l’energia per ricucire il dissestato mondo.
«Essere amato./ Quanto l’ho voluto./ Quanto ho fatto per questo./ Ho dato tutto di me. Quanto l’ho desiderato/ essere amato». Nel pensiero espresso da «Caino» (Einaudi, 2011) che poi si manifesta nel suo contrario, nella morte, c’è una universale richiesta d’amore tutta umana?
Senza amore l’essere umano non può sopravvivere, si ammala, o «diventa bruttissimo dentro», come recita la Fatina nel nostro ultimo spettacolo. È un ingrediente indispensabile per ogni mammifero, credo, al pari di aria, acqua e cibo. Ma anche le piante, l’acqua o il sole, tutto sembra vivere di una espansione amorosa. Tutta umana è invece la nostra razionalità che finge a volte di poter fare a meno dell’amore.
Un mese fa, con il Teatro Valdoca e per la regia di Cesare Ronconi, avete debuttato con lo spettacolo «Enigma. Requiem per Pinocchio». Ci avete lavorato due anni e i testi sono suoi. A un certo punto scrive: «Ci sono lumache pazientissime. Si può imparare da loro. Non sei migliore. È antico ingegnere spaziale, ciò che chiami lumaca. Sa il segreto delle galassie. Apriamo il tuo orecchio alla lingua sua siderale». In che modo il suo Pinocchio (interpretato da Silvia Calderoni) impara a osservare e sentire le altre lingue?
Pinocchio è legno che desidera farsi carne, fare un salto di regni, e apre così un lungo interrogativo su cosa ci renda umani. Il tema della comprensione all’altro da noi, a questo punto della nostra storia di specie, mi sembra centrale.
L’altro sta assumendo connotati sempre più larghi, non è solo l’altro umano: dobbiamo cominciare a pensare alle diverse specie, alle altre forme di vita che ci tengono in vita, come prolungamento di noi stessi.
Tra i suoi ultimi riti sonori, insieme a «Voce che apre» – e a esso strettamente collegato – c’è «Il quotidiano innamoramento», che riprende la raccolta «Quando non morivo» (Einaudi, 2019). Parte dall’incanto fonico di Amelia Rosselli e l’innamoramento possiede improvvisamente tutti i suoni del mondo. A chi si è voluta rivolgere?
Il canto esce urgente e si intona a tutto ciò che ha incontrato con intensità e attenzione.
Non mi rivolgo a nessuno in particolare. Solo vorrei che la poesia radicasse dentro le nostre vite, a celebrarle, negli innumerevoli istanti che attraversiamo, dalle semplici cose, ai più alti e complessi pensieri.

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