CULTURA

Praticare la vita dopo la crescita: l’arte di fare attenzione con Gaia

«Nel tempo delle catastrofi», per Rosenberg & Sellier l’ultimo libro della filosofa belga Isabelle Stengers
FEDERICA TIMETObelgio

Che «l’intrusione di Gaia» abbia condotto Isabelle Stengers dalla filosofia della scienza all’ecologia politica è una affermazione tanto pretestuosa e inesatta quanto quella che vede un allontanamento dalla critica della tecnoscienza nella presunta svolta ecofemminista dell’ultima Haraway, il cui approccio presenta non poche affinità con quello di Stengers.
Nel tempo delle catastrofi, uscito in Francia nel 2008 e di cui Nicola Manghi cura (in un senso non solo editoriale, è il caso di dirlo) la prima edizione italiana per i tipi di Rosenberg & Sellier (pp. 168, euro 13.50) corredandola di una preziosa introduzione e di una intervista alla autrice, lo evidenzia con forza.
È UNA AFFERMAZIONE pretestuosa perché ripropone un preconcetto che Stengers intende smantellare, ovvero la formulazione di un «diritto epistemologico» che cerca fondamenti laddove ci sono piuttosto fondazioni opponendo scienze e non scienze, le une preposte alla ricerca della verità, le altre relegate a essere extra-, para- o sub- scientifiche. Uno stigma di cui la stessa produzione di Stengers sembra caricarsi, da coautrice del Nobel per la chimica Ilya Prigogine (La nuova alleanza, 1981, legittima-ta Scienza) passata a interessarsi di etnopsichiatria, magia, droghe, ipnosi (illegittima-te scienze). È poi anche inesatta se si considera che, per Stengers e Haraway, la questione epistemologica e quella ecologica non sono mai state separabili, perché pensare diversamente è sempre stato per loro anche fare diversamente: non si dà sapere, infatti, senza un ambiente nel quale questo diventa efficace, funziona e fa funzionare un groviglio di relazioni metastabili che nessuna ecologia ridotta a «scienza delle funzioni» (scrive Stengers in Cosmopolitiche) potrà mai pretendere di sistematizzare una volta per tutte.
STENGERS DECOSTRUISCE ogni dispositivo legittimante, da quello terapeutico a quello di verifica, produttivo di ciò che apparentemente smaschera mentre si fa garante della propria autorevolezza autoevidente.
L’intrusione di Gaia non aggiunge alcuna nuova garanzia, semmai porta con sé la fine delle garanzie – di crescita soprattutto – di Scienza, Stato e Capitale, incluse le loro soluzioni (come la transizione ecologica).
Meno olistica che in Lovelock, meno sfidante che in Latour, compostista come in Haraway, la Gaia «di» Stengers è difficile da definire perché in effetti non arriva per farsi definire, ma funziona come un operatore che nel darsi da pensare ci rende capaci di agire in modo diverso: accantonando soprattutto l’idea delle magnifiche sorti e progressive, e scardinando il legame fra emancipazione dell’Umano e conquista epica della terra.
L’ECOLOGIA POLITICA di Stengers insiste sull’articolazione delle pratiche locali e situate, per questo mai utopiche né distopiche, dove non c’è giudice esterno che possa fare appello alla «logica del chiunque», o all’ esser capaci «in generale». La prospettiva dell’articolazione aggiunge, complica e combina, non sottrae né esplica o divide. Non attribuisce colpe, ma non per questo garantisce innocenza.
Di fronte alla governance del «panico freddo», dove i responsabili e gli impotenti, gli esperti e gli incompetenti sono inchiodati a ruoli prestabiliti, è a caratterizzare, cioè a diventare e rendere capaci di rispondere alle situazioni, a moltiplicare le parti in causa, che Stengers invita – si noti che proprio nel 2008 Haraway impiega per la prima volta il concetto affine di «response-ability» (When Species Meet).
La suscettibile Gaia non esige, non arriva a giudicare e condannare, nondimeno non lascia neppure nel pantano dell’impossibilità. Stengers sembrerebbe de-legittimare la lotta, ma lo fa allo scopo di liberarne la potenza, per riportarla al piano delle operazioni sottraendola a quello delle soluzioni.
SOLO ATTRAVERSANDO le controversie, facendo risuonare le perplessità, è possibile giungere alla composizione del comune a venire, un comune che deve ogni volta prodursi e cui nessuna identità o terreno assicura solide basi di partenza, in un senso che sarebbe ancora proprietario ed esclusivo – come quando, per esempio, si invoca una comune appartenenza alla Terra, tanto di moda oggi in molta ecologia senza politica.
L’attenzione è da fare, da coltivare come si fa con le piante. Nelle articolazioni contestuali e attraverso gli attaccamenti corpo a corpo, che hanno sempre luogo par le milieu direbbe Deleuze, agire in comune diventa possibile solo se si realizza il pensare insieme come farlo. L’invito, allora, è a farsi «utilizzatori», invece che meri utenti o peggio ereditieri, apprendere a pensare intorno a ciò che si usa mentre si usa. Formarsi alle pratiche, e così partecipare alla costruzione dei problemi, piuttosto che rispondere a problemi già posti.

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