COMMENTO

Inchiesta toghe, un colpo a Montesquieu

PATRIZIO GONNELLA ITALIA/ROMA

Sono tanti i motivi per cui ritengo che il Parlamento non debba mettere sotto indagine la magistratura, si muovono su piani diversi pur essendo tra loro correlati in modo inestricabile. Motivi che attengono all’essenza della democrazia costituzionale.

Il principio enunciato all’articolo 101 della Carta secondo cui «I giudici sono soggetti soltanto alla legge» va interpretato in considerazione della necessità democratica di preservare l’indipendenza dei giudici e tenerli fuori dall’orbita del potere, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli.

Non è questo un principio da interpretare come espressione di chiusura corporativa. Sin dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso Magistratura Democratica, nata nel 1964 e a cui tanto dobbiamo per lo sviluppo di una cultura della giurisdizione rispettosa dei diritti fondamentali, interpretava l’art. 101 della Costituzione da un lato per colpire quel legame distorto e pericoloso che aveva tradizionalmente e pericolosamente unito giudici e politica e dall’altro per riconnettere giuridicamente e sentimentalmente la magistratura a norme e spirito costituzionale.

A sua volta l’art. 3 della Carta, con il suo richiamo forte all’uguaglianza e alla dignità, richiede frammentazione del potere pubblico. L’indipendenza della magistratura deve essere sia interna che esterna. La storia italiana è stata segnata da deviazioni istituzionali, crimini, progetti eversivi. L’indipendenza della magistratura deve essere garantita, protetta, promossa a tutti i costi, anche nei momenti più difficili della magistratura stessa, vittima di pratiche consociative.

Ogni piccola erosione allo spazio di autogoverno, autonomia e indipendenza rischia di produrre effetti a catena negativi sull’architrave del sistema costituzionale che, ricordiamolo, retroagisce a Montesquieu il quale così scriveva: «E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore».

La Commissione di indagine sulla magistratura voluta da alcune forze politiche e di cui parla sulle pagine del Corriere il prof. Sabino Cassese, per la sua natura evidentemente politico-punitiva, porta con sé il rischio di una progressiva erosione di indipendenza. La democrazia è materia viva, non è solo il prodotto di norme. È fatta di invasioni sostanziali di campo, di segnali, di messaggi subliminali diretti all’auto-censura. Indagare la magistratura italiana nel suo complesso è qualcosa che può creare turbamento in tutti quei giudici che oggi stanno indagando sugli uomini delle istituzioni. Ha il sapore di una vendetta politica.

Non mi pare un argomento quello della reciprocità, ossia che i parlamentari possono indagare la magistratura in quanto i giudici possono mettere sotto inchiesta un parlamentare. Se così non fosse dovremo assicurare immunità assoluta ai detentori del potere politico, come ai tempi del dispotismo settecentesco o come avviene nelle democrazie formali.

I giudici possono e devono mettere sotto inchiesta chiunque per le proprie responsabilità individuali, ma non possono certo mettere sotto inchiesta il parlamento, anche là dove ci sia una diffusa corruzione nella politica. È semmai il parlamento che può mettere sotto inchiesta se stesso, così come deve fare il Csm sulla magistratura. I giudici possono però incriminare una persona che riveste alte cariche, senza guardare in faccia nessuno, come prescrive l’articolo 3 della Costituzione. Possono e debbono farlo se ha rubato, ammazzato, truffato, rapinato, sequestrato.

Dare invece al parlamento la possibilità di indagare la magistratura significa aprire il vaso di Pandora, legittimare le vendette che aspettavano di essere consumate da trent’anni a questa parte. Questo atto di difesa della magistratura e della sua indipendenza parte dalla piena consapevolezza delle storture che si sono avute nei rapporti tra politica e giustizia, come il caso Palamara ha evidenziato.

Ha questa volta ragione sempre Sabino Cassese quando afferma che «il sistema politico, a sua volta, non è privo di colpe, perché legifera continuamente sulla giustizia, moltiplica i reati, non riesce a introdurre sanzioni diverse dal carcere, tollera mezzi di prova invasivi della vita privata delle persone, dilata l’uso del diritto penale e lascia il campo aperto alle procure; a corto di idee e programmi, ha delegato alla magistratura il controllo della virtù, sottoponendosi anch’esso a tale controllo e rinunciando alle immunità che i costituenti avevano introdotto».

Ma la conclusione non è una commissione di indagine parlamentare, neanche su politica e giustizia. La conclusione deve essere quella di una rigenerazione etica, politica e antropologica senza la quale le cose non possono che peggiorare. La politicizzazione dello scontro farà male all’indipendenza della magistratura che invece richiede sobrietà, pacatezza delle posizioni, per un ritorno a quell’idea di magistrato che fa politica non costruendo alleanze ma esprimendo idee alte.

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