VISIONI

La sfida del tempo nel palindromo di voci e corpi

Attiva dal 2007, la compagnia belga Ontroerend Goed lavora sulla sperimentazione spesso provocatoria
LUCREZIA ERCOLANIITALIA/MILANO

Quello di tornare indietro per modificare il passato è un desiderio profondamente radicato, se poi la sfida è la catastrofe ecologica sarebbe salvifico far scorrere il tempo a ritroso per riparare la situazione. La compagnia belga Ontroerend Goed l’ha fatto accadere sul palco, con lo spettacolo in prima italiana che apre il festival FOG di Triennale Milano (11-12 maggio). Are we not drawn onward to new erA è un palindromo nel titolo e nella struttura, gli attori e le attrici si scontrano con i limiti dei propri corpi e delle proprie voci sottoposti al rewind. Negli atti quasi magici del fare e disfare si mostrano difficoltà e sorprese che ambiscono a stimolare l’immaginazione e il dibattito, secondo le parole del regista Alexander Devriendt: «Credo che l’arte debba prendere parte alla discussione, non solamente ripetendo tesi già proposte da altri ma mostrando un punto di vista originale».
A rafforzare la drammaturgia firmata da Jan Martens concorre la scelta della musica: The Disintegration Loops del compositore americano William Basinski è il risultato del trasferimento di alcune registrazioni anni ‘80 dal nastro al digitale. Nei passaggi ripetuti molte volte i materiali si sono deteriorati, lasciando una traccia udibile del loro disfacimento. In questa impossibilità della fedeltà insita nella ripetizione risiede il nucleo del lavoro, come ha puntualizzato Devriendt «l’idea dello spettacolo si è originata proprio da quella musica, non avrei potuto farlo senza». Avvezza a sperimentazioni dal tono critico e provocatorio, con il pubblico spesso coinvolto in prima persona, Ontroerend Goed è attiva dal 2007; Are we not drawn onward to new erA fa parte dei suoi lavori più prettamente teatrali con cui ha vinto il First Award al Fringe Festival di Edimburgo.
Lo spettacolo sembra avere un retroterra filosofico, ce lo può esplicitare?
Non sono un determinista. Non penso che come esseri umani non possediamo il libero arbitrio o che non ci sia alcun modo di risolvere i problemi legati al riscaldamento globale, al contrario. Rispetto anche chi pensa che sia già troppo tardi e che non abbiamo alcun potere, ma direi che lo spettacolo sia quasi un antidoto a quel tipo di visione. Vorrei mostrare che, anche se il passato e il futuro sembrano già fissati, ci sono alcune possibilità di cambiamento. Si potrebbe dire che il pubblico vede lo spettacolo due volte: la prima recitata all’indietro, la seconda in avanti. Questo processo però non è scontato e non tutto accade come ci si aspetta, perché desideravo rendere interessante anche la seconda parte sorprendendo lo spettatore, non solamente a livello della forma ma anche del contenuto. Sembrerebbe tutto già deciso ma mostriamo che lo stesso elemento può apparire in altro modo se guardato da una prospettiva diversa, proponendo così di fatto due spettacoli invece di uno. Credo che la maggior parte del pubblico sia già cosciente dell’impatto delle proprie azioni rispetto alla crisi climatica. Mi sono chiesto allora come potessimo proporre un lavoro che non confermasse semplicemente le loro convinzioni ma che potesse sfidarle, o quantomeno che potesse aggiungere qualcosa alle conoscenze consolidate. Spesso ci sentiamo colpevoli per la situazione nonostante tutti i nostri sforzi, la domanda a cui volevo rispondere allora è la seguente: «Come possiamo convivere con questa sensazione, c’è una via di fuga?».
Questo lavoro mette in scena il nostro presente all’interno della trilogia di spettacoli chiamata «Infinite Trilogy» dove vengono rappresentati l’intero passato, presente e futuro del mondo. Non l’ha spaventata un progetto simile?
Sì, ma poi l’ho fatto comunque! Era un desiderio che avevo da quando ero giovane. Assumendo naturalmente che c’è un punto di vista egocentrico sulla «storia di tutte le cose». Non dico che sia propriamente il mio personale ma sicuramente è il punto di vista di un essere umano occidentale. Tutto è iniziato facendo l’impossibile e rendendolo possibile, da lì il resto dello spettacolo si è generato naturalmente. Il rischio e la sfida sono diventati parte del progetto, ci abbiamo lavorato per tre anni e ci siamo fatti aiutare molto dagli scienziati.
C’è uno sforzo importante da parte degli attori per recitare al contrario, che tipo di lavoro avete svolto?
Ci siamo scontrati con la gravità per quanto riguarda i movimenti e poi con i limiti fisiologici di ciò che una bocca può fare. A volte abbiamo dovuto operare delle modifiche perché alcune parole erano veramente impossibili da recitare al contrario. Durante le prove mi ricordo che l’inversione di causa ed effetto era sconvolgente, i nostri cervelli non sapevano più se stessimo svolgendo le azioni al contrario o meno. Abbiamo lavorato anche con dei coreografi per capire come muoversi all’indietro, come spostare il proprio centro di gravità. Gli attori e le attrici hanno combattuto con il testo, ma il risultato è così soddisfacente!

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