CULTURA

Oltre i limiti del dualismo, fare alleanze come bene comune

SCAFFALE
FEDERICA TIMETOITALIA

E se l’ecologia non si occupasse della natura? Si domanda Bruno Latour elencando ciò che l’ecologia crede di fare senza riuscirci, e ciò che invece fa, e anche molto bene, quando non parla di natura. Il libro di Nicola Capone, libero ricercatore, docente e attivista, dal titolo Lo spazio e la norma. Per una ecologia politica del diritto (ombre corte, pp. 124, euro 12) con un saggio introduttivo di Salvatore Settis, può certamente essere ascritto a questa seconda lista. Infatti, dalla sua discussione sul pensiero dualistico che ha dominato i modelli di spazio e norma, rendendoli a loro volta sistemi di dominio, emerge una ecologia politica che si confronta con complicate associazioni, che non parla di protezione o inclusione ma di presa in carico di vite comuni, che si disfa del ragionamento intorno a fini e mezzi per aprire la questione dell’umano (dunque l’umano stesso), e infine che non edifica sistemi ma preferisce avventurarsi nelle controversie, o come direbbe Donna Haraway restare nei gangli vischiosi del trouble.
IL PERCORSO DI CAPONE, che muovendo dalla filosofia del diritto giunge a Silvia Federici e Judith Butler presupponendo molto altro senza che ciò sovrasti mai l’incisiva chiarezza delle argomentazioni, evidenzia come non siano soltanto le scienze sociali e le scienze naturali a esser state infestate dagli spettri delle antitesi – inclusa quella che le ha tenute separate a lungo –, ma come il cappio del pensiero dualistico abbia soffocato anche il discorso giuridico.
Nei modelli discussi, lo spazio è alternativamente base su cui la norma assoluta e trascendente si dispiega, vige e definisce – così in Hans Kelsen –, ovvero spazio che fonda la norma nel duplice movimento di radicamento-ordinamento (Ortung e Ordnung) del nomos richiamato da Carl Schmitt.
Poiché in queste opposizioni i due termini della relazione sono, seppur alternativamente, presupposti come dati e generativi di ulteriori opposizioni politicamente rischiose perché facilmente strumentalizzabili (dal tecnocapitalismo come dal nazionalismo), Capone propone di ripensarli criticamente facendoli implodere in uno spazio operativo di mezzo.
In questo ambiente proliferante di parti in causa, mediazioni e agentività distribuite, la circolazione delle forze che (si) configurano spazio non può essere subordinata a una economia della loro estrazione e accumulazione (che presupporrebbe ancora un approccio dualistico), ma – seguendo Jason Moore – deve poter esprimere l’oikeio-nomia in quanto performance stessa delle relazioni vitali. Per questo spazio terraneo ed emergente, i modelli dualistici del discorso giuridico sono dunque limitativi oltreché inadeguati.
È CON LA SVOLTA costituzionale, secondo Capone, che lo spazio si posiziona e storicizza (arginando la sovranità), si sostanzia (nell’esercizio e nella rivendicazione dei diritti), e può essere finalmente sottratto al dispositivo proprietario sia privato che pubblico. La proposta di funzionalizzare i beni riportandoli agli usi comuni, che non prescindono mai dalle pratiche e dai legami sociali e anzi, come afferma Rodotà, neppure vi preesistono, costituisce il cuore ecologico del libro: ripensare la natura della norma – e, va da sé, anche della natura – attraverso gli usi collettivi non proprietari significa che il soggetto non si trova mai solo di fronte alle cose e che molti di quelli che credevamo «oggetti» compongono con noi nuove comunità di vita naturalculturali, che richiedono modi sempre situati di cura e manutenzione. Insomma, una politica non normativa non può prescindere da un’etica altrettanto non normativa – non categorica né egemonica, mai universale, sempre complessa –, come quella che in questi anni, da più direzioni, hanno proposto soprattutto le riflessioni e le pratiche femministe, mostrando come anche la cura possa sovente trasformarsi in apparato di cattura dei corpi e solidificarli in mansioni e funzioni. Oppure, al contrario, come suggerisce anche questo libro insieme al nuovo Manifesto della cura (The Care Collective, Alegre), sia possibile curare relazioni e stringere alleanze partendo dall’interdipendenza piuttosto che dell’appartenenza.

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