VISIONI

Frances McDormand, percorsi fra resilienza e nuove vite

I mesi passati sul set e i protagonisti, il rapporto con la regista Chloe Zhao
LUCA CELADAusa/los angeles

Con i premi ricevuti il mese scorso come produttrice e migliore attrice protagonista di Nomadland, Frances McDormand, 63 anni e uno dei volti più caratteristici del cinema d’autore a stelle e strisce, ha raddoppiato il personale palmares Oscar che comprende anche statuette per Fargo e Tre manifesti fuori Ebbing , Missouri. Come quest’ultimo film, Nomadland ha esordito al Lido, alla scorsa Mostra del Cinema, anche se in assenza dell’attrice/produttrice che ha invece presenziato ad una proiezione simultanea in un drive-in di Pasadena, dinnanzi ad una platea di macchine parcheggiate ed un coro di claxon quando assieme alla regista Chloe Zhao è salita sul palco dopo la proiezione. Con loro quella sera c’erano anche alcuni «van dwellers», attori non protagonisti che nel film hanno interpretato se stessi: canuti nomadi che come migliaia di altri pensionati scelgono una vita minimalista «on the road» in furgoni e camper, viaggiando ai margini della società – e del mito del successo statunitense - ritrovandosi in un circuito di accampamenti ed effimere «comunità intenzionali» lungo le strade, soprattutto del grande ovest americano. Come il precedente film di Zhao, The Rider (giustamente premiato alla Quinzaine di Cannes nel 2018) Nomadland ibrida la fiction col linguaggio documentario utilizzando per la prima volta anche un cast professionista. Da allora la regista cinese – oscar anche lei per la regia – ha diretto il prossimo blockbuster Marvel, The Eterrnals.
Come si è trovata a lavorare con Chloe Zhao?
Ho visto The Rider da sola al festival di Toronto e dopo la proiezione stavo cercando qualcuno a cui chiedere chi fosse la regista, ‘perché non la conoscevo? Devo assolutamente saperne di più!’. Più tardi, agli Independent Spirit Awards, ho capito che invece nell’ambiente indie molti la conoscevano bene. È stato davvero un colpo di fortuna aver visto The Rider, che Peter Spears (il co-produttore, ndr) mi facesse leggere il libro (di Nomadland) e che poi Chloe abbia accettato di dirigere il film nel suo stile «ibrido». Lei non aveva mai lavorato con attori professionisti, quindi il nostro film in un certo senso forse ha fatto da ponte dal suo lavoro precedente, Songs My Brother Taught Me, The Rider, ad Eternals ed i progetti che sceglierà in futuro.
Chi sono i personaggi che popolano il film?
Non sono persone che fanno scelte inconsulte. Potranno apparire eccentrici e forse sono un pò più ansiosi per via dello stress della loro vita non convenzionale. Ma hanno compiuto le loro scelte in assenza di un governo che li sostenesse, anche per il fallimento di un sistema che presenta l’accumulo di proprietà come scopo ultimo.
Possiamo definirla una storia di emarginazione?
Forse in parte sì, ma attenzione, vorrei essere molto chiara su una cosa perché è importante. I personaggi ritratti in Nomadland non sono «homeless», sono senza casa perché hanno compiuto una scelta. In America come in altre parti del mondo esiste la tematica drammatica dei senza tetto ma non è il caso di queste persone, È importante capire che hanno scelto di appropriarsi delle proprie vite e uno dei sistemi per farlo è di liberarsi dell’onere di pagare l’affitto. «Homeless» (senza casa, ndr) e «houseless» (senza domicilio, ndr) significano due cose diverse. Credo che la stampa spesso non colga la distinzione. I protagonisti del nostro film non sono stati sfrattati, hanno deciso molto precisamente di adottare una vita mobile. Il tema centrale del film è semmai la problematica di cosa avviene di molte persone quando passano una certa età. Una volta esistevano ruoli nella nostra società per le persone anziane che oggi non esistono più. Credo che l’aspetto più interessante, forse, sia mostrare una generazione di americani anziani che dopo aver lavorato tutta la vita si adottano una esistenza nomade sostentandosi con lavoretti quando capita anche per non essere d’ingombro ai propri figli. C’è un tipo di resilienza tutta americana in questo. Detto questo, credo che potremmo fare molto meglio in termini di servizi sociali e maggiore equità economica? Ovviamente sì.
Ha sentito un affinità con loro?
Sì. Provengo da una famiglia di lavoratori, un ambiente rurale e di piccoli centri di industria ed agricoltura, in particolare una piccolo città della Pennsylvania vicino Pittsburgh, dove tutti erano operai nella fabbrica siderurgica. Quindi sì, ho sentito di rappresentare gente che conosco, la gente che mi ha cresciuto.
E con Fern il suo personaggio?
Per fortuna non ho perso nessuno che mi fosse davvero vicino, a parte i miei genitori che hanno vissuto una vita lunga e piena fino a tarda età. Quindi non ho avuto l’esperienza specifica di Fern, ma il mio mestiere è trasmettere le sue emozioni. Fa parte de mio lavoro convincere il pubblico a darmi fiducia e seguirmi su un terreno emozionale che ci interessava esplorare, a me e a Chloe (Zhao). Un luogo che lo spettatore non conosce ma che allo stesso tempo non gli è del tutto nuovo. Ad esempio cosa significa trovarsi improvvisamente soli, l’orrore e la libertà, la tristezza e la gioia di dover dipendere solo da se stessi.
Fern ha un rapporto saltuario ed utilitario col lavoro, lei ha avuto esperienze simili?
Ho cominciato a lavorare a 15 anni. Ho lavato piatti in un ristorante come molti dei miei amici, ho fatto la babysitter, la solita roba. Al college, all’accademia, lavoravo in mensa e poi nel cantiere scenografico, nel reparto costumi… L’estate la passavo in una lavanderia che non mi ha licenziato nemmeno dopo che ho dimenticato un calzino rosso in una macchina e ho tinto di rosa tutto il bucato di una cliente. Dopo laureata sono stata fortunata ed ho avuto solo tre impieghi non di recitazione. Sono stata cassiera in un ristorante di New York, ho fatto la segretaria e ho risposto alle lettere dei fan degli AC/DC, dopodiché fortunatamente ho potuto mantenermi da attrice.
Le è rimasto in mente qualcuno in particolare?
Nella mia famiglia abbiamo sempre vissuto modestamente, in piccoli appartamenti, cercando di non accumulare troppa roba. Durante la preparazione del film ho incontrato persone che conducono una vita ancora molto più minimalista. «Prius Dave» ad esempio, un uomo in cui mi sono imbattuta al Rubber Tramp Rendezvous (accampamento annuale di ‘nomadi intenzionali’ a Quartzsite, Arizona, vicino al confine con la California, ndr). Dave vive in una Prius che ha trasformato nello spazio abitativo forse più elegante che abbia visto, usando una grande asse di teak posta dal cruscotto al retro della macchina che funge da cucina durante il giorno e da letto per la notte, davvero con grande gusto. Rende l’idea di quanto poco sia davvero necessario per sopravvivere. Credo che, dopo la pandemia, iniziamo a renderci conto di come siamo manipolati dal sistema capitalistico di consumo. L’idea di decrescita fa paura, ma io credo che sia possibile imparare a praticarla. Anche dopo aver assorbito per anni che il successo è rappresentato da una barca, una macchina o una casa, 2,5 figli, e tutti talismani del successo materiale, si può scoprire che prendere in autonomia alcune decisioni fondamentali sulla propria vita, beh, forse è questo iI vero successo.

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