VISIONI

«Rifkin’s festival», variazioni sul tradimento e sull’artista

Girato a San Sebastian, tra riti e nevrosi del mondo cinematografico
CRISTINA PICCINOUSA

I festival cinematografici non sono più quelli di una volta chiosa al suo interlocutore Morton Rifkin, scrittore e docente di cinema con passione molto esigente per le Nouvelle vague e i grandi autori - Fellini, Bergman, Kurosawa. E ancora non c'era stata la pandemia che oggi, davanti a ore e ore accumulate online sul solitario divano di casa - a parte whatsapp con qualche amico o sporadico compagno di visioni singole qua e là nel mondo - cosa direbbe? Ma il racconto si svolge prima, e i fatti a cui si riferisce sono nel passato, quasi un memoir tra immaginari e vicende private del narratore. Che peraltro al festival in questione, quello di San Sebastian, era andato soltanto per controllare la bella moglie, publicist affermata, sospettando una sua relazione col giovane regista di cui seguiva il film.
LUI È LA NUOVA star del cinema internazionale, acclamato da critica&pubblico (come si dice), uno di quei tipi belli, un po' arroganti, dress code total black, che l'arte è sempre politica – «Il mio prossimo progetto vuole mettere d'accordo israeliani e arabi» dice ai giornalisti deliziati sviando grazie alla sua abile agente domande private su una storia con la moglie di un politico. Vuole fare fantascienza replica Rifkin - il quale al contrario della maggioranza trova lui (e ha ragione) e i suoi film pretenziosi. La questione «vera» è però che lì, nella bella cittadina basca sulla Concha il povero Rifkin finisce per essere «io-tra-di -voi» – e le cose possono solo peggiorare.
Rifkin's Festival il nuovo film di Woody Allen - in sala domani - girato a San Sebastian nei giorni di uno dei più antichi eventi cinematografici, degli ambienti festivalieri restituisce un ritratto assai dettagliato, e molto divertente, tra le carrellate di tipologie che li affollano, i tic e le ossessioni, i gossip e le figure che questa «bolla» più o meno parallela esalta o distrugge.
Si ride tanto nonostante la malinconia che sembra attraversarlo, a cominciare dal suo protagonista, Rifkin (Wallace Shawn) in cui si ritrovano i tratti dei personaggi di Allen (e di lui stesso) nel corso del tempo, quei nevrotici intellettuali newyorchesi appassionati di cinema europeo e dei «maestri», rigidissimi con gli altri, maniaci perfezionisti fino alla saturazione qui invecchiati. Tutto il contrario del regista emergente che si chiama Philippe - è interpretato da Louis Garrel - un misto di sofferenza narcisismo e paraculaggine vincenti.
NEI SUOI SCRITTI invece Rifkin, come Allen nei film, ai «grandi temi a soggetto» che fanno discutere preferisce la riflessione o le domande sul senso della vita, con umorismo molto yiddish «riadatta» i capolavori visti sul grande schermo nei sogni in bianco e nero di cui diviene protagonista. E che lo vedono inseguito dai fantasmi dell'infanzia, i genitori, la maestra, sé stesso bambino in una scena felliniana, o testimone «invisibile» sull’erba dei commenti della ex amata che gli ha preferito il fratello perché lui era troppo noioso - come il suo romanzo che non finisce mai.
Mentre al festival tutti mostrano di divertirsi passando dalle anteprime dei film ai cocktail, alle notti in discoteca o nei locali a ascoltare musica fino all’alba - suona chiaramente l'impeccabile Philippe che sa fare e dire sempre tutto giusto – il povero Rifkin si tormenta di solitudine e di gelosia, si vede goffo e senza fiato inseguire la moglie sempre più distante e Philippe come in Jules e Jim, soffrire a una cena bunueliana dove loro lo ignorano, intanto nella «realtà» è attratto dall’affascinante dottoressa spagnola (Elena Anaya) che lo porta in giro e tranquillizza le sue paranoie sulla salute mentre lui fantastica su loro possibili fughe insieme come in Lelouch.
UN FILM sul cinema dunque, Rifkin’s Festival? Piuttosto il cinema nelle sue variazioni diviene il terreno su cui va in scena la riflessione - su come si crea, cosa raccontare, il margine tra vissuto e messinscena - del personaggio, la sua tristezza e quel passaggio esistenzial a una vecchiaia che non gli permette più la seduzione della cultura - come era accaduto in passato con la moglie (Gina Gershon).
Allen si mette in gioco scomponendo e ricomponendo i suoi grandi amori in citazioni con molta (auto) ironia - e nelle cartoline della cittadina come nei vagabondaggi esistenziali del suo Rifkin a parla di sé, del suo cinema e dle fare cinema nel passato e adesso, in un modo a pensarci bene non troppo diverso dalle osservazioni di Scorsese sulla fine di una libertà formale in favore del soggetto. In questo senso l’ostinazione di Rifkin - così novecentesco nei suoi slanci - ci dice davvero di un mondo che non esiste più o che almeno si è congelato in pratiche fin troppo di superficie - nessun accenno però con classe ai casi personali. Allen sceglie un eroe fuori dal tempo, o messo un po’ in scacco dall’epoca a cui si adatta male, per dirci anche che essere «registi» (autori) non significa inseguire sempre il capolavoro assoluto. Lui non lo ha fatto e - come accade qui - anche i capolavori possono essere smitizzati. L’importante è sapersi prendere in giro. Almeno un po’.

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