CULTURA

L’etica della disubbidienza è disattesa senza il coraggio

«SULLA VILTÀ» DI PEPPINO ORTOLEVA
SONIA GENTILIITALIA

Avete mai letto un libro di storia delle mentalità che non rinuncia a esprimere un chiaro punto di vista etico? Avrete l’occasione di una simile, rara esperienza leggendo Sulla viltà. Anatomia e storia di un male comune (Einaudi, pp. 281, euro 23) di Peppino Ortoleva.
La viltà documentata dall’autore attraverso la letteratura e la parola pubblica non è un concetto retorico. È un sentimento concreto dalla forma inclinata, un piano di scivolamento potenziale presente in ogni essere umano, ambiguamente camuffabile nella forma dell’allineamento a un ordine vigente la cui natura non si conosce e non si vuole guardare sino in fondo.
È QUESTO IL TRATTO caratterizzante dell’adesione media al nazifascismo, esemplare nella motivazione gelidamente vile addotta per il proprio lavoro di organizzatore dei campi di sterminio da Adolf Eichmann («eseguivo gli ordini») durante il noto processo di Gerusalemme: è appunto il piano della «banalità» del male descritto da Hannah Arendt a proposito di Eichmann e di questo processo.
Si tratta, insomma, di quella terribile virtù che consiste nello «zelo per il lavoro ben fatto». Lo «zelo» degli uomini del Lager descritto da Primo Levi è un’erba che cresce sul terreno metastorico e eternamente ambiguo della pace sociale, in nome della quale si esegue e si obbedisce sottraendosi alla scelta etica.
La viltà dell’obbedienza convive egregiamente - risultandogli complementare – con la retorica del coraggio militare tipica dei regimi patriottico-totalitari, coraggio presentato d’altronde nelle retoriche interventiste che sorressero i due conflitti mondiali come virtù di pochi, atta a trascinare in modo brutale e provvidenziale i molti pusillanimi e imbelli.
La viltà di cui parla Ortoleva è quella vera, dunque, in primo luogo perché emerge dalle retoriche del coraggio prese in esame nel libro come loro rovescio sostanziale: è la viltà di chi aderisce al coraggio imposto – quello bellico, ad esempio – ma non giunge all’audacia di disobbedire per motivi etici.
In ogni situazione e in ogni epoca l’autodeterminazione del coraggio – la «democratizzazione del coraggio», dice Ortoleva fotografando così il conflitto tra egemonie e conquiste dello spazio sociale – è anzitutto la capacità di reagire in base alla propria testa e al proprio senso morale all’imposizione di comportamenti e valori: la narrazione di come emerge il «diritto al coraggio» delle donne (data la tradizionale identificazione tra prodezza, virilità e guerra) e di come si tende a calpestarlo (l’aumento della violenza sulle donne si registra proprio quando la loro autodeterminazione si fa più forte ed emergente) testimonia nel libro proprio questo.
La viltà del libro è quella vera, inoltre, perché è còlta come dimensione psicologica sommamente ambigua e complessa attraverso la più formidabile esplorazione della soggettività moderna: quella delle Memorie dal sottosuolo di Dostojevski. È quella vera, infine, perché è misurata anche rispetto ai sentimenti di empatia, pietà e condanna che essa suscita talvolta nell’autore stesso rispetto alla materia da lui trattata.
LA PECULIARITÀ del volume si trova dunque nella complessità dell’analisi da un lato, e dall’altro nella capacità di praticare la storia della mentalità senza cadere nel relativismo vile – è il caso di dirlo - che si trincera dietro la dimensione radicalmente «culturale» di ogni etica.
Il libro di Ortoleva è una risposta alla questione vichiana della storicità e /o essenzialità delle nostre strutture morali, riaperta dal dibattito che nel 1971 oppose Noam Chomsky a Foucault. Insegna che la percezione della storicità dei valori deve essere guidata dal coraggio – appunto - di percepire e affermare che cosa è in assoluto giusto e sbagliato: per noi qui ed ora, certo, ma con maggiore esattezza e onestà possibile.

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