COMMENTO

La vecchia Cassa batte il Piano del governo

Mezzogiorno
PINO IPPOLITO ARMINOITALIA

L’enfasi con cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) è stato presentato con riferimento all’obiettivo di riequilibrio territoriale fra le due Italie, il Centro-Nord e il Mezzogiorno, appare piuttosto ingiustificata.
Lo ha già scritto su queste stesse pagine Alfonso Gianni (il manifesto, 27 aprile) evidenziando l’occasione mancata di rilanciare il Paese intero mettendo il Mezzogiorno non tra le priorità cosiddette trasversali ma al centro stesso del Pnrr.
Anche a voler dare credito alle cifre contenute nel Piano ed assumendo lo scenario migliore (o alto come è stato definito) - che comporta una crescita del prodotto interno lordo nazionale del 3,6% aggiuntiva rispetto al dato tendenziale (2,5% secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale) - il prodotto pro-capite del Mezzogiorno, a conti fatti, nel 2026 si attesterebbe al 59,3% di quello del Centro-Nord.
Ancora lontano da quel 60,3% raggiunto nel 1973 al culmine dell’intervento straordinario avviato con la legge 10 aprile 1950 n. 646 che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno.
Troppo poco per rilanciare quello che per gli stessi estensori del Piano è ad oggi “il territorio arretrato più esteso e popoloso dell’area euro”. Ma anche su questo non troppo ambizioso obiettivo di convergenza pesano gravi incognite.
L’obiettivo del 40% delle “risorse territorializzabili” da destinare al Mezzogiorno può apparire un’autentica rivoluzione ma è anche una vecchia promessa mai mantenuta. Ci si dimentica, infatti, che già la legge 1 marzo 1986 n. 64 ha fatto obbligo alle Amministrazioni dello Stato di riservare al Mezzogiorno una quota non inferiore al 40% delle somme complessive per investimento. La novità sarebbe ora rappresentata dal fatto che a promettere sia l’uomo del whatever it takes. Come noto, tuttavia, l’orizzonte del Pnrr è il 2026 e nessuno scommetterebbe sulla permanenza di Draghi alla presidenza del Consiglio neppure da qui a un anno, quando si dovrà votare per eleggere il nuovo capo dello Stato e i progetti del Piano saranno verosimilmente in una fase appena embrionale.
C’è poi una questione anche più rilevante che sembra essere stata trascurata.
Le politiche di ispirazione liberista che ci accompagnano da 50 anni hanno fatto crescere il già ampio divario economico tra le regioni più ricche e quelle più povere. Il modello regionale italiano si è rivelato un fallimento e lo si vorrebbe, addirittura, implementare con il dissennato e non ancora accantonato progetto di autonomia differenziata. In questo contesto la previsione di “task force locali che possano aiutare le amministrazioni territoriali a migliorare la loro capacità` di investimento e a semplificare le procedure” è del tutto irrilevante. Pensare di affidare, ad esempio, alle burocrazie e alle caste politiche regionali i compiti sottesi dalla sesta missione (la sanità), per ridurre le insopportabili diseguaglianze territoriali esplose con la pandemia, è davvero ingenuo. Il rischio è che al termine del Piano quelle disparità risultino persino accresciute. Se l’obiettivo che si persegue è davvero l’uniformità delle prestazioni sanitarie in tutto il territorio nazionale bisogna sottrarre alle regioni quella competenza e riaffidarla allo Stato perché il Servizio Sanitario torni ad essere di fatto e non solo di nome Nazionale.
Giova ricordare che ogni passato esempio di convergenza e di sviluppo economico è riconducibile a una programmazione affidata saldamente alle mani dello Stato. Il piano Marshall, ad esempio, consentì alla fine degli anni ’50 all’Italia di agganciare le economie più avanzate al mondo (per inciso le agevolazioni finanziarie per la ricostruzione andarono per l’84,3% a imprese del Centro Nord) e anche la Cassa per il Mezzogiorno segnò una svolta. Si mise fine alla concezione che guardava alla Questione Meridionale come problema da avviare a soluzione sulla base del corretto funzionamento delle amministrazioni ordinarie e per la prima volta si istituì un ente apposito con il compito di coordinare sistematicamente l’insieme degli interventi destinati al Sud.
Nel ventennio 1953-73 si ebbe la modernizzazione delle regioni meridionali ma anche, e soprattutto, il potenziamento dell’economia del Nord. Così alla fine degli anni ’70 il reddito medio degli italiani era analogo a quello degli inglesi e solo del 10% inferiore a quello dei tedeschi o dei francesi.
Solo, dunque, un nuovo intervento sistematico e straordinario dello Stato finalizzato espressamente al Mezzogiorno e alle sue storiche debolezze potrebbe invertire il processo in atto di disgregazione dell’Italia, come è ancora nei voti, nonostante certe spericolate acrobazie politiche, della parte più miope della classe dirigente del Nord Italia.

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