CULTURA

Brigata Balilla, «non avevamo retrovie, si poteva sopravvivere solo combattendo»

SCAFFALE
ALESSANDRO SANTAGATAitalia/cravasco

Uscito nel 2004 La Sega di Hitler. Storie di strani soldati (1944-1945) di Manlio Calegari è un libro che meritava di essere ripubblicato. Ci ha pensato la Editpress nella collana di Storia orale, diretta da Gabriella Gribaudi e coordinata da Giovanni Pietrangeli. La ricerca ruota attorno alle azioni militari della brigata volante Balilla, attiva dal dicembre 1944 sulle colline attorno a Bolzaneto. Alla base c’è una solida conoscenza della storia della Resistenza a Genova e dintorni. Come osserva Santo Peli nella prefazione, l’autore si è lasciato alle spalle la forma tradizionale del saggio storico per dare spazio a un’«atipica e originalissima narrazione partigiana». Lo scopo è «comprendere ’dall’interno’ i molti ’perché’, che le storie generali della resistenza non permettono di mettere compiutamente a fuoco». Nel caso della Balilla siamo di fronte a un profilo complicato, dal momento che la formazione si muoveva tra il monte Sella e la città, dove poteva contare su una base logistica all’interno della ferriera Bruzzo. E proprio in città, in cui agiva seguendo le indicazioni dell’organizzazione comunista, praticava una lotta di «inequivocabile stile gappista»: fatta di attentati, assalti e incursioni nei paesi limitrofi.
LA NARRAZIONE inizia dal ritrovamento casuale della mitragliatrice tedesca M42 che i partigiani chiamavano «la sega di Hitler». Il racconto procede in maniera corale coinvolgendo l’autore-intervistatore in un percorso di rielaborazione collettiva e intergenerazionale che mette in dialogo l’esperienza resistenziale con le lotte operaie del lungo dopoguerra.
Gino, Luciano, Ezio e gli altri combattenti, intervistati da Calegari a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, si lasciano andare lentamente illustrando le specificità di una lotta diversa nella forma e nella sostanza da quella di montagna.
COME SPIEGA LUCIANO, «non eravamo come gli altri, lassù, sempre in attesa del rastrellamento. Qui eravamo noi a fare il gioco salvo che, ogni volta, dovevamo giocarci tutto; non avevamo retrovie. Potevamo sopravvivere solo combattendo». Sempre Luciano ricorda che «in guerra i vestiti non sono meno importanti che in pace». Occorreva mimetizzarsi nel contesto urbano: «potevi essere vestito come loro o meglio. Non peggio».
Lo snodo principale è la controrappresaglia del 4 aprile 1945 a Cravasco, dove in risposta alla fucilazione (per rappresaglia) di una ventina di detenuti politici e all’incendio del paese, i partigiani della Balilla falciarono 39 tra tedeschi e fascisti prelevati dal campo prigionieri di Rovegno. Non è consueto imbattersi in episodi come questo, sul quale Peli ha scritto alcune pagine nel suo Storie di Gap (Einaudi, 2014). Cravasco – scrive Calegari – «non era un segreto, ma apparteneva agli atti di guerra di cui non si ama parlare. Contrastava sicuramente con l’immagine generosa, consolidata ormai da tempo, del movimento partigiano».
NELLE TESTIMONIANZE dei protagonisti, l’episodio affiora poco a poco. Si parla di un’azione necessaria per dimostrare al nemico che la Balilla non si sarebbe fatta condizionare. La decisione, messa ai voti e approvata all’unanimità dai componenti della brigata, aveva sollevato dubbi nel Cln locale, soprattutto per il rischio che la spirale delle rappresaglie non avesse fine. La guerra era agli sgoccioli e dalle carceri di Marassi era arrivato chiaro il messaggio di non proseguire con le ritorsioni. A renderci più chiare le motivazioni è un passaggio dell’intervista ad Ezio: «La ragione, sia pure in quelle condizioni eccezionali, stava dalla nostra parte. Avevamo vinto uno scontro leale contro un gruppo dei loro, tutti soldati esperti. Per risposta hanno fatto una macelleria».
APPARENTEMENTE una vendetta dunque, che si spiega alla luce di quell’odio nei confronti del nemico che emerge di continuo dalle testimonianze. Ma anche una scelta sofferta, sebbene convinta e animata da una sua logica. Non rispondere alla rappresaglia – scrive Peli – «avrebbe coinciso con l’ammettere di aver coinvolto i civili in una violenza da cui poi si finisce per ritirarsi impotenti». Se i tedeschi avessero voluto reagire avrebbero trovato «la sega di Hitler» ad attenderli. Insomma, per usare le categorie di Tzvetan Todorov, almeno dal punto di vista della Balilla, a Cravasco non fu anteposta l’etica della convinzione politica a quella della responsabilità nei confronti di quella comunità, di cui i partigiani si consideravano i custodi. Non tutte le parti in causa in quel contesto potevano ovviamente convenire.
Inoltre, perplessità e dubbi vengono fuori anche nelle interviste raccolte dall’autore, che ricorda come per i partigiani della Balilla la discussione sul dare la morte fosse sostanzialmente un tabù. Del resto, come fa presente Mauro, «della guerra non si può parlare seduti e tranquilli. Non sapevi, combattevi per colpire, per difenderti, per affermarti». L’intero lavoro di Calegari costituisce anche un’operazione di analisi del «rimosso» ed esorta, al contrario, a continuare a discutere di moralità nella Resistenza, ma rifuggendo da facili schemi interpretativi.

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