CULTURA

Ripensando il ruolo delle «élites finanziarie» in età contemporanea

MANFREDI ALBERTI USA/EUROPA

A più di dieci anni dallo scoppio dell’ultima crisi finanziaria manca a tutt’oggi un’interpretazione coerente dei processi economici seguiti al crollo di Lehman Brothers. La maggior parte degli economisti ortodossi, già colta alla sprovvista all’inizio della crisi, risulta ancora incapace di fornire una spiegazione convincente degli eventi.
Anche sul versante storiografico, per altro verso, un’analisi della crisi in una prospettiva di lungo periodo è ancora ai primi passi. Si può comunque osservare che la fase di elevata instabilità economica iniziata fra il 2007 e il 2008, ancora per nulla esaurita, ha almeno contribuito a mettere in discussione, dopo trent’anni, il mito delle magnifiche sorti e progressive della deregulation finanziaria, e a riaccendere l’interesse degli studiosi verso il ruolo dei banchieri e più in generale delle élites finanziarie nell’avvio delle crisi e nel mantenimento di elevati livelli di diseguaglianza.
UN SEGNALE di rinnovato interesse storiografico verso il ruolo delle élites finanziarie in età contemporanea è senz’altro il recente volume collettaneo curato dagli storici Youssef Cassis e Giuseppe Telesca (Financial Elites and European Banking. Historical Perspectives, Oxford University Press, pp. 288). Coprendo un arco cronologico che va dalla Rivoluzione francese a oggi, gli autori di questo libro tentano di studiare il ruolo sociale di manager e banchieri, colti nei loro legami con il contesto politico e istituzionale. Tale rapporto, correttamente, viene sempre inteso come dialettico, essendo caratterizzato dall’interazione fra le regole che lo Stato pone e le sollecitazioni che dal mondo finanziario emergono per modificare o aggirare il quadro normativo. Una chiave interpretativa, quest’ultima, che può aiutare a inquadrare in una dimensione di lungo periodo l’alternanza, verificatasi nel Novecento, fra diversi «regimi finanziari»: dalla prima globalizzazione di inizio secolo, alla «repressione finanziaria» seguita alla crisi del 1929 e durata per molti versi fino agli anni Settanta, fino a giungere alla successiva deregolamentazione avviata negli anni Ottanta e tutt’oggi persistente.
IL VOLUME HA IL MERITO di restituirci un’immagine più articolata e complessa del ruolo delle élites finanziarie nell’Europa contemporanea. Il mondo delle banche e della finanza, suggeriscono gli autori, va analizzato concretamente nelle sue molteplici relazioni con la totalità del processo economico e delle dinamiche sociali.
RISULTA CONFERMATA, in questo senso, la necessità di superare quelle letture delle crisi economiche che tendono a separare artificiosamente l’«economia finanziaria» dall’«economia reale», immaginando che la deregolamentazione della finanza e l’assenza di scrupoli di manager e speculatori siano capaci, da sole, di travolgere il funzionamento di un tessuto produttivo di per sé in buona salute. Questa vulgata, ampiamente diffusa e affermata nel dibattito politico e giornalistico, è stata suffragata anche dal pensiero economico dominante, propenso a vedere nel mercato capitalistico un sistema tendenzialmente stabile e armonico, turbato soltanto da uno Stato troppo invadente o da speculatori truffaldini. Un’evidente ingenuità, se è vero che, come mise in evidenza ai primi del Novecento il marxista Rudolf Hilferding nel celebre studio intitolato Il capitale finanziario, è una caratteristica propria del modo di produzione capitalistico l’intreccio fra merce e denaro, industria e finanza.

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