VISIONI

Il tempo del mondo nei frammenti di pellicola

«G_d's Pee - At State's End!» di Kark Limieux e Philip Léonard su musiche dei Godspeed You! Black Emperor
LUIGI ABIUSIUSA

Nel corso degli ultimi venti o venticinque anni, con l'affermarsi e l'affinarsi del post-rock, dell'elettronica, dello space-rock, ecc., cioè di quei generi votati alla dilatazione dei suoni e delle partiture al fine di evocare orografie, territori; le intersezioni tra musica, questo tipo di musica, e le immagini cinematografiche si sono intensificate producendo spesso risultati molto interessanti, a volte addirittura straordinari, non solo dal punto di vista estetico, ma anche sul piano teorico, dialettico, dei rapporti tra i linguaggi. Ad esempio i Daft Punk hanno dimostrato sin da subito una certa propensione verso la sfera visuale, anche al di là del videoclip, che resta tutt'ora il terreno di più immediato confronto tra le immagini in movimento e la musica - come mostra il testo capitale di Luca Pacilio, Il videoclip nell'era di Youtube. 100 videomaker per il nuovo millennio. Per i Daft Punk si trattava di andare al di là del tempo limitato concesso dal videoclip, per guadagnare spazio, poterlo rappresentare nella sua estensione. In questo senso la sequenza iniziale di Electroma (tanto simile a quella di Gerry di Gus Van Sant), l'auto che avanza sull'asfalto, addentrandosi nel deserto, nello spazio vuoto, che così viene significato, ratificato a mano a mano che la macchina da presa vi posa lo sguardo, è metafora di questa volontà di conquista, dello spazio appunto, da parte di un linguaggio fondato sul tempo: la musica. Ecco allora il film, lasso di tempo protratto, più adatto alla figurazione dello spazio; specchio su cui ammirare la diversificazione degli ambienti prospettati da questa musica dal respiro sinfonico, concertistico pur nell'uso che fa di chitarre elettriche, percussioni ferrose o drum machine, synth.
TRA LE OPERAZIONI più riuscite e affascinanti di sovrapposizione del palinsesto musicale con quello cinematografico, mi viene in mente Interstellar 5555 che traduce nel tratto, nell'animazione di Leiji Matsumoto il disco dei Daft Punk appunto, Discovery; o Atomic, Living in Dread and Promise di Mark Cousins in cui la colonna sonora dei Mogwai non solo accompagna, ma anima, dirige le immagini di un film altrimenti modesto; oppure di recente il lavoro dei Julie's Haircut, specialmente quello di musicazione del film di von Sternberg, The Last Command, magnifica progressione tra gli spazi della Russia e di Hollywood inscritta in un prisma psichedelico.
MA FORSE, su questo piano di osmosi tra immagini e musica, la cosa più bella apparsa in questi anni (che resterà sicuramente come uno dei film più belli alla fine dell'anno), e dico «cosa» pensando alla natura ibrida, stratificata di quest'opera, è G_d's Pee - At State's End! realizzata in 16 millimetri da Kark Limieux e Philip Léonard su musiche dei Godspeed You! Black Emperor, gruppo canadese che si muove nel solco del post-rock, del folk, della musica sperimentale.
L’OCCASIONE è stata l'anteprima mondiale del nuovo disco, diffusa in diretta sul web e ancora visibile su molte piattaforme tra cui bilibili.com: più di 50 minuti in cui i due proiezionisti dei Godspeed combinano lacerti di pellicola appesi a trespoli, come spoglie di un rito iniziatico (o funebre), attraverso proiettori 16mm piazzati nella galleria di un teatro. Proiezioni simultanee, affiancate o parzialmente sovrapposte, a partire da forme abbozzate, macchie di luce sullo schermo, proporzionali al grado di saturazione della musica: all'inizio è Military Alphabet (five eyes all blind), un'imprimitura di disturbi, onde radio, un mugghiare lontano, spettrale. Poi il sopravanzare di una monodia struggente, Job's Lament, da cui affiora il canto in distorsione di un «Hope» come inciso sulla pellicola, che fluttua davanti ai nostri occhi e da cui si sgranano progressivamente le figure, gli spazi, i panorami sempre più delineati.
È un inizio stupefacente, fatto di attesa striata di chitarra, di piatti e gran cassa, di chiazze accese, spente improvvisamente, informi nebulose in trepidazione nel quadro, in attesa del motivo musicale che in effetti arriva ed è di una vitalità sconcertante se penso ai dischi precedenti dei Godspeed, ma anche in confronto alle immagini che invece mantengono una patina fantasmatica, un bianco e nero funereo attraverso cui appare un mondo in combustione, martoriato da anidridi, scarichi industriali, poi tramestii di folle, grigi scorci urbani, ma anche steli, fiori, nuvole danzanti al vento, in un cielo divenuto bluastro. Questo repertorio politico e poetico si frammezza alle immagini del teatro in cui avviene la proiezione, dotate di una carica politica e di sfumature liriche forse ancora maggiori: spazio desolato, sontuosamente decadente – sembra il Gran Kursaal della Morte rouge di Erice – come fosse ormai una cosa del passato, fuori moda, e su cui alla fine cala il sipario in modo inquietante. E allora il senso ultimo del film è in questa concentricità (schermi su un palcoscenico, dentro lo schermo che lo spettatore è chiamato a guardare), nella pluri-spazialità (il teatro e i molti luoghi in combinazione nel quadro) e si situa negli interstizi, negli sfagli tra questi spazi, nella distanza esistente tra i linguaggi, tra musica, cinema, teatro: e da lì ci guarda, occhiuto, mentre, chiusi i sipari, galleggiamo nel tempo catastrofico, e suona al ritmo cadenzato di rullante, e si muove, danza in ombra, in fantasma di tulle.

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