CULTURA

Le rotte dell’immaginazione e le intermittenze del mondo

Le esperienze di viaggio di due scrittrici svizzere tra gli anni ’40 e ’50
ALESSANDRA PIGLIARU MONDO/SVIZZERA

Il bagaglio non deve essere ingombrante, ne risentirebbe l’agilità di movimento e la levità della scoperta. Una valigia piccola basterà, anche per molte settimane in cui al superfluo si preferirà ciò che serve. Quando lo spostamento non è forzato o dettato da obblighi, il proprio corpo è solerte attraversamento di luoghi, li visita e vi si immerge. Li tocca, mani e matita in un taccuino o dietro un obiettivo, e ne intuisce l’ampiezza sensoriale. In questa direzione, seppure per strade diverse, vanno lette le esperienze di Annemarie Schwarzenbach e Katharina Von Arx. Entrambe scrittrici e giornaliste svizzere, si accostano alla scelta di intraprendere un lungo - e talvolta reiterato - viaggio verso mondi sconosciuti spinte tuttavia da motivazioni che ne segnalano la differenza caratteriale oltre che la postura esistenziale.
COLLOCABILE nella prima metà del Novecento, l’impresa di ciascuna non si svolge negli stessi anni, sono le date a essere decisive: se Schwarzenbach soffre di «mal d’Europa» e ogni luogo visitato (dal 1934 al 1942) fa da contrappunto alla guerra terribile, prima presagita e poi arrivata a travolgere, Von Arx si sposta nel 1953 con uno scenario geopolitico del tutto mutato. Ed è interessante a tal proposito vedere gli stessi luoghi decifrati da contesti materiali differenti. Tra diario di bordo e reportage giornalistico, misto a incursioni letterarie e un senso di interna curiosità nei riguardi dell’avventura intrapresa, le due scrittrici sono accomunate anche dall’audacia della giovane età, Annemarie ha 26 anni e Katharina ne ha 25.
DOTATA DA SEMPRE di una vista profonda e acuta, gli scritti di viaggio di Annemarie Schwarzenbach sono raccolti ora nel volume I miei occhi sul mondo (Il Saggiatore, pp. 269, euro 22) fra il 1934 e il 1942. La curatrice, Tina D’Agostini, sceglie di disporre il libro come una mappa cronologica verso la conoscenza di sé seguendo gli articoli, per giornali e riviste, che vanno così a completare i tre lavori già tradotti in cui sono depositate le memorie e talvolta le fotografie dei suoi viaggi (Dalla parte dell’ombra, 2001; Oltre New York, 2004; Tutte le strade sono aperte, 2015). Il riordino - nella traduzione italiana dell’opera di Schwarzenbach -, ben riuscito, si deve leggere insieme ai lavori prettamente letterari. Seppure sia morta a soli 34 anni, i romanzi rappresentano, nell’interezza, una complessa esistenza in cui il viaggio è fuga vitale e necessaria.
Dalla cittadina di Bandol, a pochi chilometri da Marsiglia e Tolone, gli occhi di Annemarie consegnano una lettera dalla Costa Azzurra sul senso della disappropriazione che provoca sollievo del cammino. Ma ecco subito che alla larghezza delle strade marine attraverso cui, in una notte falciata dalla luna, la scrittrice arriva a Maiorca, si salda la freschezza salina dei mattini a Palma, così somigliante alle città costiere siriane. Il 1934 è decisivo soprattutto per il suo soggiorno verso l’Oriente, cominciando da Palmira a cui dedica pagine indimenticabili. Ritratti di donne che portano brocche sulla testa o, nel deserto, taniche vuote di benzina. L’eleganza è la stessa. Un luogo che custodisce la storia di un impero, abitato da meharisti e aviatori oltre che da molti turisti. E se Tadmor «è sopravvissuta alla distruzione», si accendono i vicoli del bazar e le carovane senza tempo. Si giunge in tal modo a Baghdad, verticale alle Mille e una notte, tra animali con amuleti azzurri e mercanti di lana e seta seduti a gambe incrociate; a margine dei suq, freschi e bui, ci sono invece artigiani, sarti indiani e argentieri ebrei.
DOPO UKHAIDIR Annemarie racconta del percorso verso Tehran, dei controlli alla frontiera di Khosravi, della salita ripida al passo Peitak e i campi di papaveri che abbacinano l’arrivo in Kurdistan; nella fierezza leggera delle donne curde, con un volto sottile, bruno e il naso prominente, la curvatura del suo sguardo si illumina del fulgore letterario che le è proprio e, dal carattere descrittivo, passa alla plastica cautela che si adatta al circostante.
Più di un passaggio è segnato dalla riflessione intorno ad alcune parole con cui ci si confronta quando si viaggia. Una è «strada» che per alcuni spazi visitati non è – come spiega – «un termine adeguato. A volte si tratta di carovaniere, a volte di mulattiere, passi, sentieri tra le montagne o nelle valli, oppure di un intrico di tracce appena visibili sulla sabbia del deserto. Si parla di strade perché attraversano paesi e conducono lontano, infinitamente lontano, in certi casi così lontano che si perde ogni speranza che abbiano uno scopo o una meta». La contraddizione sta nell’appuntare nomi precisi, varchi necessari, insieme a meravigliosi smarrimenti in cui a sorprendere è una tempesta più o meno scampata. Altra cosa sono invece le autostrade incontrate negli Stati Uniti che conducono la scrittrice a New York il 3 novembre del 1936, nelle ore decisive della competizione elettorale tra Roosevelt e Landon. È un altro dei mondi visitati da Annemarie che, dalla pace iraniana lenta come un addio, si ritrova a confrontarsi con il clima di una battaglia di potere, dalla campagna di Hearst, re della carta stampata, alle persone comuni stanche di lottare, dai milioni di dollari spesi da entrambi gli schieramenti ai circoli in cui si affastellano giovani «radicali», socialisti comunisti e scrittori che si interrogano sulla positività dei risultati. Ritorna negli Stati Uniti tra il ’40 e il ’41, nei due anni successivi alla sua permanenza in Afghanistan. Attraverso il mare che la porterà dal Portogallo al Congo, e poi al Marocco, scorgiamo la cifra meditativa delle osservazioni, tra pesci volanti mai visti prima e il confronto con i profughi senza documenti con cui divide una delle tante navi utilizzate.
DI ALTRO TENORE è La viaggiatrice leggera (L’orma editore, pp. 286, euro 18) in cui Katharina Von Arx, con sagacia e ironia, rende l’intermittenza degli spazi una vera e propria geografia sentimentale di cui, con altrettanto e sferzante stile, racconta la traduttrice del testo, Sara Mamprin, nella postfazione al volume. Settantanove sono i disegni che corredano questo notevole memoir con partenza da Genova e destinazione Bombay, passando per l’Egitto, la Cina, il Giappone e gli Stati Uniti. È il ritratto della libertà femminile che, al pari di quella di Schwarzenbach, si scopre in se stesse ma con maggiore levità nel caso di Von Arx. L’esercizio del corpo è qui diverso, intanto perché Katharina ha sì pochi vestiti con sé ma è provvista di ukulele; e poi perché, insieme al divertimento della musica e del ballo a cui si concede, l’incanto con cui osserva chi incontra, siano principi nababbi o impiegati, la porta a dei ritratti imperdibili delle debolezze umane, in particolare maschili. Intelligenza e umorismo fanno da sfondo alle discrete avances che riceve e a cui risponde con una grazia quasi austeniana, seppure si tratti di pregiudizi nei riguardi della sua eccentricità. Ma lei, oltre all’ukulele, ha un elmetto tropicale ed è provvista di elegante spavalderia.
E insieme ad Annemarie, sia pure in anni e tragitti diversi, ha indagato ciò che il viaggio impone: accorgersi del mondo e di chi lo abita.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it