VISIONI

Oscar 2021, l’«anno orribile» del cinema in cerca di un futuro

Parola d’ordine distanziamento, red carpet in versione anti-contagio
LUCA CELADAusa/los angeles

Si avvicinano gli Oscar 2021, o forse sarebbe meglio dire incombono su una Hollywood stremata e stordita costretta dall’anno pandemico a giocare in difesa e inventare, in corso d’opera, un nuovo modello commerciale.
Per la 93ma edizione l’Academy ha commissariato Union Station, lo scalo ferroviario della città che verrà trasformato in palco ausiliario di uno spettacolo dislocato sia nel grande atrio della stazione che sul consueto palcoscenico del Dolby Theatre di Hollywood Boulevard. Parola d’ordine: distanziamento. Pur coi dati positivi sul contagio nella contea di Los Angeles e tassi di vaccinazione che rasentano il 50% nelle zone abbienti (ma nei quartieri poveri ed etnici si piomba precipitosamente sotto al 20%), nessuno ha voglia di rischiare. È ancora fresco il ricordo di Charlie Pride, veterano cantante country, deceduto un mese dopo aver assistito ai premi della Country Music Association: molti attribuirono proprio a quella cerimonia il suo fatale contagio. Quindi verranno adottate le severe norme di sicurezza che da mesi vigono sui set.
DOPO mesi di incertezza si sa che comunque esisterà un «red carpet», anche se in versione anti-contagio: limite stretto al numero di giornalisti contenuti in appositi recinti di plexiglas. Le interviste saranno facoltative, con facoltà appunto di non rilasciarne per le star che preferissero minimizzare le interazioni. Steven Soderbergh, ingaggiato come produttore d’eccezione dall’Academy si limita a promettere che si tratterà di un format inedito e che l’anno dove sono saltate tutte le regole è quello giusto per sperimentare cose nuove. «Sono il primo a lamentarmi ogni anno dello spettacolo - dichiara - ma dato che i premi di quest’anno sono destinati comunque a rimanere per sempre segnanti con un asterisco, secondo me tanto vale provare qualcosa di veramente diverso».
Potrebbe essere l’anno di un Oscar effettivamente un po’originale? Sullo spettacolo in sé vige ancora il massimo riserbo, ma certo le misure da Contagion (il film proprio di Soderbergh che dieci anni fa immaginava una pandemia globale nata in Cina da contagio zoonotico) non si sposa bene col glamour e l’ostentazione congenita di una cerimonia auto congratulatoria per antonomasia. Né, a giudicare dalle cerimonie che hanno preceduto gli Oscar finora, con l’audience. Emmys, Golden Globes e Grammys hanno tutti registrato catastrofici crolli di ascolti e una generale delusione per l’atmosfera asettica determinata da pubblico distanziato e profusione di collegamenti zoom.
L’emorragia di pubblico che affligge i premi è altresì una tendenza in atto da anni, forse sintomo allora di fenomeni più fisiologici e profondi. La pandemia, come afferma il produttore Jason Blum avrebbe semplicemente accelerato mutazioni già in corso «provocando in 12 mesi cambiamenti che sarebbero comunque avvenuti, magari in cinque anni». Mentre i film sono stati affiancati dalle serie e la fruizione da parte di un pubblico relegato a casa si è spostata su schermi più piccoli, lo spazio pubblico in cui film e serie vengono discusse, criticate e condivise è stato sostituito dai social.
La crisi ha spalancato la porta alle piattaforme che avevano già comunque abbondantemente iniziato ad erodere la supremazia culturale del cinema, e fatto di Netflix una superpotenza. Dopo aver tentato la scorsa estate di distribuire comunque un blockbuster come Tenet (ed aver incassato un sonoro fallimento), gli studios hanno fatto a gara, prima a rimandare le uscite a date da destinarsi, poi ad entrar essi stessi nel business dello streaming. Accanto a Netflix, Amazon ed Apple sono apparse Disney +, Paramount + ed Hbo Max (la Sony ha preferito siglare un accordo di distribuzione proprio con Netflix). A dicembre la decisione della Warner di trasmettere in streaming ogni film in contemporanea con l’uscita in sala ha suscitato scalpore, malumore fra gli autori e panico fra gli esercenti.
TUTTI in città, almeno pubblicamente, negano che si possa rimpiazzare la magia del cinema in sala, ma privatamente molti sono sicuri che non si tornerà indietro, non del tutto. Tanto per iniettare ulteriore malaugurio in una stagione già sufficientemente nefasta, proprio questa settimana è arrivato l’annuncio che due importanti circuiti non riapriranno più le loro sale. La Pacific Theaters e la Arclight hanno comunicato di non aver «trovato i presupposti» per riprendere l’attività dopo aver abbassato le saracinesche un anno fa. Un duro colpo per il pubblico che si apprestava a tornare nei cinema (ora riaperti al 25% di capienza con apertura totale già annunciata dal governatore Gavin Newsom il 15 giugno), e per tutti gli esercenti che finora hanno campato di crediti e sovvenzioni statali e che rischiano di diventare vittima sacrificale della metamorfosi forzata dell’industria. La Arclight in particolare gestisce il multisala più prestigioso di Sunset boulevard, spesso utilizzato per anteprime importanti e il Cinerama Dome la cui grande cupola geodesica e schermo da 25 metri sono una delle sale simbolo della città del cinema.
INSOMMA c’è in ballo ben più che la semplice identità dei vincitori in questo 93mo Oscar che, oltre a celebrare i trionfi dell’anno, suggelleranno l’anno orribile del cinema. Certo è chiedere molto, ma in un’industria notoriamente superstiziosa e dipendente da gusti e abitudini cangianti, molti vorranno cercarvi una qualche indicazione sulle direzioni in cui si avvia il cinema stesso sperando di ravvisarvi un indicazione sul futuro, e possibilmente un bagliore di speranza.

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