CULTURA

Ngugi wa Thiong’oa. l Booker Prize e oltre i confini

Express
MARIA TERESA CARBONEafrica

Sono anni, una decina almeno, che il nome di Ngugi wa Thiong’o ricorre in cima alla lista dei candidati al Nobel per la letteratura. E chissà che il prossimo ottobre non arrivi finalmente il momento per far conoscere al mondo questo scrittore poliedrico, capace di passare dal saggio al teatro, dal romanzo al memoir, alla poesia, mantenendo una cifra distinta e riconoscibile. Nei suoi testi infatti, a qualsiasi genere appartengano, si fondono il gusto per la tradizione orale africana e il rigore di uno studio dove l’aspirazione a «decolonizzare la mente» (questo il titolo di una sua celebre raccolta di conferenze degli anni ‘80, uscita in Italia per Jaca Book nel 2015) non esclude la passione per i classici del «canone» e la curiosità verso ogni cultura umana.
Ma se ancora una volta gli accademici di Stoccolma sceglieranno diversamente, la recente inclusione di Ngugi nella longlist 2021 dell’International Booker Prize ha fatto notizia: per la prima volta, da quando il premio, rivolto a romanzieri di tutto il mondo tradotti in inglese, è stato istituito, un autore viene contemporaneamente nominato come scrittore e come traduttore. E per la prima volta nell’elenco delle lingue di provenienza dei testi prescelti compare un idioma africano, il gikuyu: è in gikuyu, la sua lingua-madre, infatti, che Ngugi ha composto una sorta di romanzesca epopea in versi, che ha poi tradotto in inglese con il titolo The Perfect Nine: The Epic of Gikuyu and Mumbi (il libro è uscito nel 2020 per Harville Secker).
Al di là del risultato del premio, questa è per Ngugi una vittoria anticipata, convinto com’è (lo abbiamo già citato in questo spazio) che gli autori africani debbano mantenere un legame attivo con le loro lingue di origine, pur nella consapevolezza che scrivere in inglese o in francese offre loro la possibilità di raggiungere un pubblico più vasto: non solo una scelta di rappresentanza, ma un dovere etico, per lo scrittore kenyota. Commentando la longlist del Booker, la giornalista del Guardian Sian Cain ricorda appunto che Ngugi prese questa decisione quando venne incarcerato nel suo paese natale proprio per avere scritto un testo teatrale in gikuyu: «In prigione – disse in seguito lo scrittore – cominciai a pensare in modo più sistematico al linguaggio. Perché non ero stato detenuto prima, quando scrivevo in inglese? Fu allora che presi la mia decisione. Non so se avrei superato il blocco psicologico se non fossi stato costretto dalla storia».
Non solo The Perfect Nine, comunque, dimostra la volontà dei giurati del Booker di aprire il premio a voci diverse, rendendo più mobili le distinzioni fra confini geografici e generi letterari. Osserva la presidente della giuria, la storica Lucy Hughes-Hallett, citata ancora da Sian Cain: «Tra gli autori che abbiamo individuato c’è uno scrittore ceco/polacco che descrive la malavita svedese alimentata dalla droga, un cileno di origine olandese che scrive in spagnolo di scienziati tedeschi e danesi, e un senegalese trapiantato in Francia che racconta dei combattenti africani in una guerra europea. Gli autori attraversano i confini, e così fanno i libri, rifiutando di stare in categorie rigidamente separate. Abbiamo letto libri che assomigliavano a biografie, a miti, a saggi, a meditazioni, a testi di storia, e sono stati trasformati in opere narrative dall'energia creativa dei loro autori».
(Ancora a proposito di Ngugi segnaliamo che venerdì 16 aprile alle 11 sul canale YouTube della Sapienza sarà possibile seguire un ricordo, a poco più di un anno dalla scomparsa, di Maria Antonietta Saracino, fra i primi in Italia a parlare dello scrittore africano proprio sulle colonne del manifesto).

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