CULTURE

Alla ricerca dell’opera infinita per la cura del territorio

«PROGETTO MINORE» DI CAMILLO BOANO, PER LETTERA VENTIDUE
MARCO PACIONIITALIA

Uno dei momenti più importanti della critica alla fondazione del sapere è la coscienza per cui l’opposizione alla metafisica, che di quel sapere costituirebbe l’orizzonte giustificativo più abbracciante, può risolversi in una riaffermazione capovolta dello stesso schema metafisico.
COME AVVERTIVA già Heidegger, contrapporre semplicemente la differenza all’universale, il marginale a ciò che sta al centro, può risolversi in un gioco delle parti che - invece di prospettare un’uscita dalla metafisica - non farebbe altro che riaffermarla sotto mentite spoglie.
Il filosofo che forse nel secolo scorso ha offerto la più pregnante variazione a questa situazione di stallo è stato Deleuze. Al posto della contrapposizione frontale, del marginale contro il centrale, della soggettività interna contro la presunta oggettività esterna, per Deleuze occorre ritagliarsi uno spazio dentro lo stesso discorso maggioritario. Uno spazio «minore» che possa agire per destituire, decolonizzare e istituire nuovamente l’agire umano e il sapere.
NON UN ANTI-PROGETTO da opporre a quello dominante, ma una parte minore di questo medesimo progetto che in tal modo può essere indotto a funzionare diversamente da come originariamente sembra essere stato congegnato. Il «minore», mutuato soprattutto da Kafka da parte di Deleuze, ha contribuito, in questi ultimi decenni anche in Italia, a nutrire il pensiero politico di Agamben, di Esposito, di Ronchi.
Di quest’ultimo ricordiamo il recente Canone minore (Feltrinelli), il cui titolo ispira quello del libro che contiene la riflessione architettonica di Camillo Boano, Progetto Minore. Alla ricerca della minorità nel progetto urbanistico ed architettonico (Lettera Ventidue, pp. 112, euro 9,40).
FRA TUTTI I RICHIAMI teorici, Boano sembra volersi tenere più vicino a quello di Agamben. In particolare, l’autore si richiama al ruolo che la «potenza destituente» di Agamben può assumere nel progetto architettonico. Cruciale è per Boano che il progetto mantenga la propria potenzialità e che l’atto stesso non si risolva mai definitivamente in ciò che Agamben chiama «opera», cioè in un costrutto che non ha più possibilità di continuare a essere progetto. Proprio nel non esaurire tutta la sua potenzialità, il progettare può rinnovare paradossalmente la sua forza istituente (direbbe Esposito) e la sua attitudine a essere decolonizzante nel territorio e nella comunità con i quali il progetto architettonico e urbanistico va a interagire.
Per Boano non è in questione tanto immaginare una pratica architettonica de-progettante o, per usare un termine più filosofico, decostruttiva. E non solo perché ciò potrebbe comportare la paralisi creativa, ma perché, portata al parossismo, la logica dell’anti-progetto può risolversi in uno svuotamento che, specie in certi momenti storici, può vedersi riempito da quei «dispositivi» – per utilizzare un altro termine di Deleuze – la cui caratteristica predominante è proprio quella di azzerare la potenza progettante e di ridurre il progetto, ancorché a un’opera, a un meccanismo che pretende di funzionare soltanto nel modo preventivato.
COME IL CONTESTO nel quale va a interagire, così il progetto non smette di costruirsi, ricostituirsi. Proprio in questa capacità di riattingere alla propria potenzialità passata, il progettare che pone Boano è quello di un’architettura che si cura del territorio e della comunità e non solo di sé stessa. Un’architettura che non si esaurisce nell’atto in cui vengono gettate le fondamenta.

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