COMMENTO

Bene la cittadinanza italiana. Ma non sia un alibi

Patrick Zaki
ANTONIO MARCHESIITALIA/egitto

La proposta di attribuire la cittadinanza italiana a Patrick Zaki è un bel gesto politico. Non sarà facile darvi seguito. Immagino, se non altro, che si debba chiedere a Patrick (a chi per lui?) se accetta l’offerta.
E se dà il suo consenso … dal momento che la cittadinanza italiana non può essergli imposta. Ciò detto, è chiaro che questa iniziativa non può risolvere da sola il problema della sua detenzione arbitraria e neppure quello del ruolo dell’Italia nel porvi fine. Il fatto che la vittima fosse cittadino italiano non ha impedito all’Egitto di ignorare platealmente le richieste di verità e giustizia sulla morte di Giulio Regeni.
E neppure ha determinato quell’azione energica e lineare che ci saremmo aspettati dai nostri rappresentanti governativi, la cui strategia è stata, invece, incerta e inefficace.
Cos’altro, allora, cittadinanza a parte, si può e si deve fare in concreto (sia per Patrick che per Giulio, al di là delle differenze fra le due situazioni)? Due cose in particolare. In primo luogo, utilizzare la clausola giurisdizionale di cui all’art.30 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Questa prevede che, in presenza di una controversia fra due stati parti sull’applicazione della Convenzione (che, lo ricordo, impone di punire con pene adeguate gli atti di tortura), la soluzione può essere cercata ricorrendo ad arbitrato internazionale oppure, in seconda battuta, alla Corte internazionale di giustizia. Le sollecitazioni a fare uso di questo strumento in relazione alla vicenda di Giulio Regeni, e cioè a portare l’Egitto davanti alla Corte dell’Aja, non sono mancate in questi anni. Non hanno, però, ricevuto alcuna risposta dal governo … come se la controversia con l’Egitto potesse essere ancora credibilmente affrontata con gli strumenti della diplomazia (o, peggio ancora, non esistesse). Al meccanismo dell’art.30, peraltro, si potrebbe ricorrere da subito, senza attendere l’eventuale cittadinanza italiana, anche con riferimento al caso di Patrick Zaki: la Convenzione contro la tortura ha infatti per oggetto i diritti umani, che sono di tutti e non solo dei propri cittadini.
La seconda cosa che si potrebbe (anzi, dovrebbe) fare riguarda l’export di armi dall’Italia verso l’Egitto. La legge 185 del 1990 vieta l’autorizzazione a esportare armi verso paesi “i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate da competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa”. La norma è chiarissima e sono sconcertanti i tentativi ripetuti di aggirarla come quando, qualche mese fa, il governo ha sostenuto in Parlamento che la norma non conterrebbe “un divieto tassativo e generalizzato, ma un richiamo alla attenta vigilanza e valutazione caso per caso”. Ebbene, gli accertamenti di gravi violazioni ci sono – basti esaminare i documenti sull’Egitto del Comitato contro la tortura, sulla cui natura di “organo competente delle Nazioni Unite” non si possono nutrire dubbi – e negare le autorizzazioni è dunque un atto dovuto, non una scelta politica. Lo segnalano da tempo Amnesty International e la Rete Italiana Pace e Disarmo e lo fa notare il recente esposto per violazione delle legge 185 presentato alla procura di Roma dai genitori di Giulio Regeni.
La proposta di cittadinanza italiana a Patrick Zaki, dunque, è una buona cosa, ma solo a condizione che non serva da alibi per non prendere iniziative più incisive. Le due possibilità che ho segnalato sono una cartina di tornasole della reale volontà politica dell’Italia di affrontare i casi sia di Giulio che di Patrick, ma seriamente … “whatever it takes”.

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