INTERNAZIONALE

Nella crisi birmana spunta una pallottola prodotta in Italia

LA LIVORNESE CHEDDITE SMENTISCE DI AVER MAI ESPORTATO ARMAMENTI IN MYANMAR
EMANUELE GIORDANAMYANMAR/ITALIA/LIVORNO

Spunta una pallottola italiana nella tragica vicenda birmana. Quel che resta di una cartuccia sparata il 3 marzo – secondo la ricostruzione del magazine locale Irrawaddy – nel giorno in cui avviene un pestaggio sistematico di persone fatte uscire a forza da un’ambulanza.
Una sequenza di immagini già postate su Fb giorni fa, testimonianza di una violenza che non risparmia nulla e nessuno. Ma il ritrovamento del reperto pone altri problemi per un Paese che, in quanto Italia e membro Ue, ha l’assoluto divieto di esportare armi in Myanmar, Paese più volte sottoposto a embargo (l’ultima volta per il dossier Rohingya) e per cui si chiede ora un divieto globale su ogni tipo di arma/munizione. La Cheddite di Livorno, una storia nella produzione di cartucce da caccia e da tiro, smentisce di aver mai venduto ai birmani. Ma il mondo delle armi è anche quello di pelose triangolazioni magari all’insaputa del produttore originario.
«Da un esame delle Relazioni governative sull'export di armi militari e dei dati Istat sul commercio estero non risultano dal 1990 al settembre scorso esportazioni dall'Italia al Myanmar di "armi munizioni" – conferma Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal di Brescia – e la Ue ha stabilito dal luglio del 1991 diverse forme di divieto ed embargo su armi e munizioni verso il Myanmar. Considerato che a Yangon sono stati trovati bossoli di produzione italiana che sarebbero stati sparati dalle forze di sicurezza e alla luce dell'embargo si rende necessario, da parte delle autorità italiane, un attento esame delle esportazioni di munizioni effettuate dalla Cheddite Italy S.r.l. per verificare se siano state in qualche modo esportate illegalmente».
Una vicenda che proietta anche l’Italia sul grande schermo della tragedia birmana. Come ci siamo mossi? Dopo un un tweet di poche righe il 1 e il 20 febbraio – ma avendo pur sempre partecipato alle iniziative Ue sia localmente sia in sede internazionale – lunedì scorso, dopo una «domenica di sangue», il ministro Di Maio prende un’iniziativa bilaterale convocando alla Farnesina l’ambasciatrice birmana a Roma. Passo formale nemmeno tanto «leggero» e significativo.
Com’è significativo aver sottoscritto e consegnato a Yangon le lettere che una dozzina di missioni diplomatiche avevano scritto anche prima del golpe quando l’atmosfera si stava scaldando. L’Italia ha rapporti con il Myanmar, un hub del tessile e Paese interessante per aziende edili o telefoniche.
Roma pensa anzi di farne la sede della Cooperazione bilaterale anche per Vietnam, Laos e Cambogia. In Myanmar inoltre sono attive diverse Ong italiane: Icei, Asia, Terres des Hommes Italia, Cesvi, Oikos. Sono preoccupate perché il loro lavoro, spesso in campo agricolo-ambientale, è anche sociale: un appoggio diretto alla popolazione e quindi alla società civile birmana ora sotto schiaffo. E cosa succederebbe se l’Italia congelasse gli aiuti che, in gran parte finanziano, le attività di cooperazione?
Significherebbe tagliare afflusso di denaro a centinaia di birmani in uno dei momenti più difficili.
«Seguo con preoccupazione e angoscia quanto avviene in Myanmar – dice Alfredo Somoza di Icei – dove siamo presenti dal 2017, proprio per scommettere su uno dei settori che soltanto in democrazia si potevano sviluppare: turismo comunitario. L’auspicio è che si trovi una mediazione che faccia cessare le violenze, ma che tuteli però anzitutto i diritti dei cittadini birmani che si sono espressi con il voto. Noi resisteremo finché sarà possibile: ce lo chiedono i nostri partner e le tante persone che hanno visto una possibilità di crescita tramite i nostri progetti». Neutralità o solidarietà? Scelte difficili.

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