VISIONI

Bryan Fogel, la censura saudita contro il «dissidente»

Bin Salman ha investito miliardi a Hollywood, una scalata che continua
LUCA CELADAUSA/los angeles

The Dissident – recensito su queste pagine da Cristina Piccino il 16 febbraio - ricostruisce con precisione forense l’assassinio di Jamal Khashoggi, uno dei più efferati delitti politici dell’era contemporanea. Nel caso del giornalista saudita residente americano, ucciso e smembrato nell’ambasciata saudita di Istanbul da un commando di sgherri spedito dal principe ereditario Mohammed Bin Salman, è racchiusa la violenza del totalitarismo contemporaneo e la moderna brutalità di regimi capaci di gestire patinati account social mentre eliminano fisicamente i propri avversari con metodi medievali. C’è insomma la concezione di potere sdoganata da Putin, Trump, Bolsonaro, Duterte e, appunto, la dinastia dei Saud, organizzatori di prestigiosi convegni sul rinascimento con la stessa disinvoltura con cui usano la frusta e la sega chirurgica.
PRESENTATO a Sundance un anno fa, il film di Bryan Fogel (Icarus) ha collezionato premi ed elogi critici ma è, singolarmente, assente dalle liste dei principali premi – prima di tutti gli Oscar, dove non appare nella preselezione della «short list» dei documentari. Un’omissione che hanno notato in molti e che sarebbe meno che casuale. «Credo che confermi quello che raccontiamo nel film,» spiega Fogel. «I sauditi sono noti per tentare di controllare i social su cui immettono propaganda e false narrazioni. Non sorprende quindi che abbiano usato le stesse tattiche contro il nostro documentario. Sappiamo che hanno tentato di interferire con la nostra classifica Imdb (il sito di cinema), soprattutto l’aggregatore delle critiche che è positivo al 97%. Senza contare poi la campagna denigratoria su Twitter. È evidente che l’Arabia Saudita ha usato la propria influenza e il peso dei propri soldi nonché consulenti specializzati per azzittire il film».
LE CAMPAGNE D’OPINIONE contro o a favore di film sono difficili da quantificare ma quando sono finanziate da forzieri pieni di petrodollari possono tradursi in ostacoli concreti. Malgrado il successo di critica Dissident non appare ad esempio sui menu di Netflix e di Amazon come avviene di solito con film acclamati a Sundance. Invece la produzione ha dovuto accontentarsi di una distribuzione su piattaforme minori (in Italia su Miocinema). «È stata una delusione che le principali piattaforme globali non abbiano ritenuto di sostenere un progetto come il nostro - prosegue il regista - ma non deve sorprendere poi tanto data la realtà del finanziamento globale di questa industria». Il riferimento è al giro di investimenti miliardari che alimenta il mondo della produzione e della distribuzione cinematografia. La gigantesca espansione del settore streaming in particolare ha richiesto lauti investimenti e l’Arabia Saudita da anni persegue una politica di investimenti a Hollywood e dintorni. Il cinema, come strumento di «soft power» per riabilitare l’immagine retrograda del regno, è particolarmente caro al giovane e rampante Bin Salman che nel 2017 ha riaperto i cinema chiusi per divieto religioso durante i tre decenni precedenti. Bin Salman ha stretto accordi con le catene come AMC, Vue e Pic per la costruzione di multisala in Arabia Saudita. Usando la vasta liquidità del Sovereign Wealth Fund, il fondo di investimenti reale, i Sauditi hanno investito in giganti come Disney, Facebook e EA (videogiochi). Fiumi di petrodollari sono confluiti verso Hollywood. Due anni fa il fondo saudita ha acquistato una quota di $400 milioni in una delle maggiori talent agency di Hollywood, la Endeavour. Nel 2018 il neonato Saudi Film Council era titolare di uno dei padiglioni più appariscenti nel villaggio Internazionale del festival di Cannes e lo stesso Bin Salman ha compiuto un viaggio in America per avere incontri strategici con top manager come Bob Iger, Ad della Disney e Jeff Bezos.
IL PIANO SAUDITA di investimenti a Hollywood si è incrinato dopo l’assassinio Khashoggi. La Endeavor è giunta a restituire i 400 milioni di dollari ricevuti e le celebrità hanno disertato il festival del Mar Rosso a Jeddah, fiore all’occhiello del regime. Bezos, proprietario del Washington Post per cui Khashoggi lavorava, è stato particolarmente critico circa l’operato di Bin Salman. I rapporti sono degenerati al punto che il telefonino di Bezos sarebbe stato hackerato mediante un messaggio whatsapp proveniente dallo stesso Bin Salman. Poco dopo, rivelazioni riservate su una relazione sentimentale del tycoon della Amazon consegnate anonimamente ad un rotocalco avrebbero provocato il suo divorzio.
È vero che un alleato fondamentale non è venuto mai a mancare nello studio ovale. Donald Trump ha sempre difeso il suo alleato più stretto, ignorando i rapporti della sua stessa intelligence. Il presidente aveva sempre pubblicamente sostenuto che i Sauditi «pagano fiori di quattrini per le nostre armi.» Poi, in una celebre intervista a Bob Woodward, si era vantato di «avere salvato il culo» al principe saudita. Oggi alla Casa bianca tira aria nuova: Biden annuncia un inversione di rotta, e un probabile, parziale ricucimento col grande rivale iraniano. Il nuovo presidente ha anche annunciato l’opposizione alla guerra in Yemen che alimentava il flusso d’armi made in Usa – il business tanto caro a Trump. Ma la linea di Washington non è necessariamente quella dei consigli di amministrazione degli studios e i miliardi sventolati dagli sceicchi fanno ancora gola. Specialmente ora.
«VI SONO SOCIETÀ gigantesche impegnate in una espansione globale, desiderose di crescere il numero di abbonati » spiega Fogel, parlando della concorrenza sempre più serrata fra piattaforme streaming. «E constatiamo come siano sempre meno interessate ad affrontare temi ‘difficili’, poco motivate a trasmettere contenuti politici o che potrebbe eventualmente contrariare azionisti n varie parti del mondo. E questo è deludente, per filmmaker come me e per i giornalisti e tutti coloro che ritengono importante dire la verità in faccia al potere.»
Intanto la scalata saudita a Hollywood non è finita. Le affinità elettive proseguono – è della scorsa settimana l’annuncio che Steven Mnuchin, ex ministro del tesoro di Trump, guiderà un nuovo fondo di investimento a Hollywood per conto di paesi del Golfo Persico. Lo scorso settembre ha fatto molto parlare l’acquisizione delle storiche testate «Hollywood Reporter», «Billboard» e «Vibe» da parte del gruppo rivale («Variety», «Rolling Stone» e «Music Business Worldwide») controllato dalla Penske Media Corp, che ha concluso l’affare grazie ad una partecipazione saudita (Saudi Research and Marketing Group) di $225 milioni. Il capitale saudita è ora un dato di fatto importante anche nel giornalismo hollywoodiano.
«Credo sia oggettivamente difficile contrastare interessi d’affari così enormi. È una lotta fra Davide e Golia – ed è molto difficile rifiutare investimenti di queste proporzioni - conclude Fogel - «Ma Hollywood dovrebbe pensare seriamente alle scelte che opera. Quando il prezzo del denaro sono i diritti civili allora credo che tutti noi si debba riflettere. Quindi spero vivamente che tutti vedano il nostro film e specialmente coloro che stiano prendendo in considerazione di accettare investimenti da parte di regimi autoritari. Perché è molto difficile ricercare la giustizia o la verità quando si fanno certi compromessi con leader che lavorano dalla parte sbagliata dell’umanità, ad esclusivo servizio dei propri interessi».

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