CULTURA

L’identità politica di «uno nessuno e centomila»

SAGGI
TIZIANA MIGLIORE

C’è ancora un «soggetto» pensabile prima delle posizioni che lo costituiscono nel mondo? L’affermazione di Foucault che «il nostro io è differenza di maschere» era l’amara constatazione che siamo tutti ipocriti e bugiardi o il tentativo di chiarire che solo l’altro, alla fine, riconoscerà chi siamo, confrontando le parti impersonate nel tempo?
IL LIBRO di Claudio Paolucci Persona. Soggettività nel linguaggio e semiotica dell’enunciazione (Bompiani, collana Campo aperto, pp. 400, euro 25) tratta il problema politico degli uno, nessuno e centomila non a partire dalla visione di un individuo, ma proprio attraverso le maschere, i «delegati» e «mediatori» che prendono in carico la nostra parola e parlano per noi, fin da bambini nei giochi di finzione. Significa intercettare il soggetto nella superficie esterna dei discorsi, mettendo a frutto una teoria dell’enunciazione, delle posizioni relazionali e spaziali inscritte nei linguaggi e che ci fanno essere storicamente. Consideriamo i big data, scrive Paolucci: qui sono strutture di enunciati a indicare atti intrisi di soggettività - gusti, comportamenti, desiderata, preferenze, incongruenze... - e in cui si è perfino in grado di prevedere le future enunciazioni. L’homo, più che faber, è fabricatus, figlia e figlio delle sue azioni (Latour), subiectus alla rete dei rapporti in cui è inserito.
L’AUTORE PASSA in rassegna le definizioni di «enunciazione» e, per costruire una teoria unificata con la soggettività, compie due scelte radicali. La prima è mostrare il primato della terza persona, l’«egli», e la potenza dell’impersonale, il «si», abbandonando la situazione di discorso per cui, con Emile Benveniste, i pronomi «io» e «tu», personali, designavano il parlante e l’interlocutore, opposti a un «egli» ritenuto «non persona». Contro le derive metafisiche e psicoanalitiche dell’apporto di Benveniste, tese a risalire al soggetto che trascende le esperienze e assicura il permanere della coscienza, già Greimas dichiarava che «l’egli, denigrato dal punto di vista della creatività, è forse, accanto al cavallo, una delle grandi conquiste dell’uomo». Paolucci si spinge oltre e considera l’enunciazione un processo collettivo, un composto in senso chimico dove la soggettività non è espressa da istanze individuali, ma sfuma, ha un carattere diffuso, estensivo.
TERZA E PRIMA PERSONA, anziché essere mutuamente esclusive, sono spesso congiunte. Lo rivela l’analisi della canzone Wish you were here dei Pink Floyd. Anche Ulisse si salva da Polifemo inventando N(n)essuno, per poi correggere l’immagine che lo ha annullato e sovrapporgliene una regale: «Sappi che chi ti ha accecato non è un Nessuno da niente! Sono Odisseo, figlio di Laerte. Itaca è la mia patria. Ricordati di me!».
È una questione non limitata alla verbalità. Un capitolo del libro è sull’audiovisivo, che ha il suo «apparato formale dell’enunciazione», per Paolucci, nei punti di prensione umani e macchinici distribuiti all’interno. Protesi dell’ascolto e dello sguardo che aumentano le capacità dello spettatore. Sempre nel cinema i discorsi indiretti liberi installano personaggi in terza persona modulati da istanze in prima, che in essi si riflettono. Nel film Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry (2004), esaminato nel volume, Joel rimappa le connessioni tra i ricordi tagliati via mentre, nel ruolo di un «io», sta insieme a figure di lei più oggettive.
LA SECONDA MOSSA dell’autore è far capire che l’enunciazione non si riduce alla proprietà dell’enunciato di manifestare l’atto che l’ha prodotta. Negli enunciati pulsano invece usi, habitus, norme sociali, schemi linguistici che sono il portato di apprezzamenti collettivi. È il tema più importante del libro, la «prassi enunciativa», ovvero i modi in cui emergono, si stabilizzano, si rimaneggiano, si usurano, spariscono le forme che usiamo. Comunicare è sempre un reimmettere nella vita sociale forme transindividuali fissate dall’uso, amplificandole o attenuandole. Lo sanno bene i sommelier, che nella degustazione del vino imparano a coniugare le sensazioni individuali con categorizzazioni socialmente stabilite (strutturato/non strutturato, rotondo/angoloso, di terroir!...). Lo sa il pittore di fronte alla tela, che non è mai bianca, ma troppo piena. Deve svuotarla, sgombrarla, ripulirla dai cliché. Emilio Vedova, ricorda Bartezzaghi nella postfazione al libro, gettava colore sulle tele bianche degli allievi per «cancellare le incrostazioni immaginarie lasciate dalla storia della pittura».
STUDIARE GLI ATTI della prassi enunciativa permette allora una migliore comprensione degli universi di discorso, rispetto a un repertorio enciclopedico di «già detto» che ne garantisce il funzionamento. Una domanda resta aperta: l’analisi di questi «centomila, nessuno e uno» a livello della prassi come si fa? Nell’attesa di saperlo, i cadavres exquis surrealisti, in cui l’individualità è un residuo, hanno adesso nuovi occhi, cioè strumenti, con cui guardarli.

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