In Sudan sembra di essere tornati ai mesi che avevano preceduto la caduta e l’arresto di Omar al Bashir. Ma a parti rovesciate, perché è il governo di oggi - faticosa espressione del compromesso raggiunto tra "civili" e militari ai fini di una transizione dai contorni ancora indefinibili - ad accusare i sostenitori dell’ex presidente di essere dietro alle violenze esplose nei giorni scorsi in diverse province-stato del Paese, dal Darfur al Kordofan.
Proteste che alla fine della scorsa erano ripartite contro il costante aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, degenerando poi in saccheggi dei supermercati, scontri, incendi. L’assalto ai forni che si rinnova, soprattutto nelle regioni più povere del Paese. In risposta il ministro dell’Interno Izz Eldin al-Sheikh è sceso personalmente e El-Obeid, capitale del Kordofan del nord. Lo stato d’emergenza con coprifuoco vecchia maniera è stato dichiarato in sette province. Scuole chiuse e forze di sicurezza rinforzate, con corollario di arresti in più città tra i membri del disciolto National Congress Party.
Quale che sia il loro ruolo, l’impennata dei prezzi, l’inflazione galoppante, l’insicurezza alimentare che per ampie fasce della popolazione delle regioni interessate è destinata secondo le organizzazioni umanitarie ad aggravarsi, sono tutti dati di fatto che non hanno mai smesso di esasperare le condizioni di vita della maggioranza dei sudanesi. Prima, durante e e dopo la rivolta che ha portato al cambio di regime. Mentre il governo dedicava tutte le sue energie a stringere accordi whatever it takes - a partire dal Patto di Abramo - per uscire dall’isolamento internazionale. Il nuovo esecutivo di transizione che tiene conto degli accordi di Juba con i gruppi ribelli di Darfur, Kordofan e Nilo Azzurro ha giurato appena lo scorso 10 febbraio promettendo solennemente di cambiare almeno registro, visto che Abdalla Hamdok resta premier e il generale Al Burhan si conferma uomo forte della giunta militare. L’esordio non è stato conciliante.
M. BO.